Troppe e mal gestite, le forze di polizia in Italia vanno riformate. Così
Più o meno in tutti i paesi dell’Unione europea c’è una forza di polizia per il controllo capillare del territorio e una per il contrasto della grande criminalità. La Germania dispone della Landespolizei nei Lander e della Bundespolizei a livello nazionale; in Francia i compiti di polizia sono svolti dalla Police Nationale cui si affianca la polizia municipale di periferia; in Spagna oltre alla polizia territoriale, esiste il solo Cuerpo Nacional de Policía (sia la Francia che la Spagna vanno verso l’istituzione di un’unica forza di polizia a ordinamento civile) e l’Inghilterra, come forza di polizia dell’enorme area della Contea di Londra, dispone della Metropolitan Police Service e, per il controllo del cuore della city, del corpo (ristretto) della City of London Police.
In Italia ci sono sei diverse e autonome forza di polizia, senza contare la polizia municipale e quella provinciale, spesso in competizione l’una con l’altra e ciascuna incaricata di occuparsi di tutto, ben al di là della propria specializzazione. Col risultato che le forze pubbliche oggi preposte al rispetto della legge in Italia ammontano a oltre 400 mila unità. Un numero che ci pone al primo posto tra i paesi europei in rapporto alla popolazione. La conseguenza è che otteniamo, spendendo 3 punti di pil (il 30 per cento in più della Germania), risultati decisamente inferiori a quelli degli altri. E’ la solita storia, a ben guardare, e vale per difetti della nostra giustizia civile, per il distacco del sistema educativo italiano dalle migliori pratiche mondiali, e potrei continuare. E al solito, la riposta al bisogno di sicurezza dei cittadini ha fin qui privilegiato la quantità sulla qualità. Quel che manca è la volontà di affrontare i nodi che impediscono un utilizzo efficace ed efficiente degli agenti. A cominciare dalla diversificazione dei compiti: il fatto che tutti tendono a occuparsi di tutto, con responsabilità che si intrecciano fino a paralizzarsi, alimenta ovviamente la dispersione delle risorse. Tanto per capirci, la polizia penitenziaria ha una propria flotta e capita che sia il corpo forestale regionale (delle regioni a Statuto speciale), anche questo nella disponibilità delle procure – come del resto la polizia municipale – a fare le indagini, comprese le intercettazioni. Inoltre, la risposta alla richiesta di sicurezza dei cittadini andrebbe ricercata, come ha rimarcato il prof. Gianluigi Galeotti, nei miglioramenti di professionalità, nel proficuo impiego delle tecniche che rendono più produttivo il personale, in remunerazioni che tengano conto della diversità dei compiti svolti (a parità di grado e di anzianità, lo stipendio, inclusi gli straordinari, di un addetto alla mensa oggi è uguale a quello di un addetto alla squadra mobile). E, manco a dirlo, nella razionalizzazione e nella semplificazione.
Ma, al solito, in Italia le riforme sono bloccate da chi ritiene che il modello di sicurezza che abbiamo ereditato dal passato sia intoccabile, uno dei migliori del mondo. E’ una vecchia storia: la nostra Costituzione non è forse la più bella del mondo? Il resto del mondo non ci “invidia” forse l’assetto della nostra giustizia? E poi, vuoi mettere la tradizione? Eppure, il nostro modello di sicurezza non è affatto efficiente (i risultati operativi prodotti non sono proporzionati alla spesa), non è affatto ben coordinato (sono frequenti le duplicazioni e le sovrapposizioni di competenze) e la concorrenza (per nulla sana) si traduce in una spasmodica corsa ad apparire sui giornali e in tv. Siamo in presenza di apparati vecchi, giganteschi e ultra burocratizzati, mal coordinati e in eterna e dannosa competizione tra loro; che reggono ancora solo grazie alla buona volontà di quella parte del personale che ogni giorno fa i salti mortali. Al solito, si tende a far apparire “invidiabile” un modello superato in modo da prevenire l’attenzione (e l’indignazione) dell’opinione pubblica, che porterebbe a una pressante richiesta di riforme, come è accaduto per il resto del pubblico impiego.
[**Video_box_2**]Ora il provvedimento sulla “riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”, in discussione al Senato, prevede la “razionalizzazione e potenziamento dell’efficacia delle funzioni di polizia anche in funzione di una migliore cooperazione sul territorio al fine di evitare sovrapposizioni di competenze e di favorire la gestione associata dei servizi strumentali”. E timidamente, si prevede “la riorganizzazione del corpo forestale dello stato” e il suo “eventuale” assorbimento nelle altre forze di polizia. Naturalmente, c’è chi si straccia le vesti. Ma rinviare le riforme è stato un errore del passato. Si deve andare avanti. In sintonia, peraltro, con quel che si sta facendo in tutta Europa. Certo, un passo per volta.
Ma perché aspettare? Ad esempio, il riordino delle funzioni di polizia del mare, può avvenire tramite l’affido esclusivo delle funzioni alla guardia costiera (e non alle otto diverse flotte – comprese le imbarcazioni del corpo forestale o della polizia comunale – che oggi incrociano nei nostri mari). Perché, a proposito del riordino dei corpi di polizia provinciale, escludere in ogni caso la confluenza nelle forze di polizia? Perché, insomma, non cogliere l’occasione per rendere più incisiva la delega? Perché non prevedere, nella fase attuativa, la razionalizzazione delle forze di polizia esistenti individuando, in prospettiva, due forze di polizia: una per il contrasto della grande criminalità e una per il controllo del territorio? Lo sanno anche i sassi: è necessaria una profonda trasformazione dell’Italia e dobbiamo cogliere l’occasione offerta dalla crisi per innescare un processo di allineamento ai migliori standard europei. Non è forse il benchmarking, il confronto sistematico, che permette alle aziende che lo applicano di compararsi con le migliori e soprattutto di apprendere da queste per migliorare? Bisogna cambiare. Ed è lecito aspettarsi che il governo affronti la riforma della Pubblica amministrazione con la stessa determinazione con la quale ha affrontato la riforma del Senato. Il vecchio Senato lo abbiamo chiuso. Per cambiare le vecchie abitudini e “fare come in Europa”. Deve valere per tutti.
Alessandro Maran è senatore del Partito democratico