Renato Altissimo (foto LaPresse)

Addio a Renato Altissimo, non protagonista ma innovatore liberale

Luigi Compagna
In Confindustria Renato Altissimo si era segnalato, giovane vice presidente della fine degli anni Sessanta, come capace innovatore liberale. E così lo ha voluto ricordato Silvio Berlusconi l’altro ieri.

In Confindustria Renato Altissimo si era segnalato, giovane vice presidente della fine degli anni sessanta, come capace innovatore liberale. E così lo ha ricordato Silvio Berlusconi l’altro ieri. Insofferente a quegli apparati e a quegli interessi, Renato aveva maturato un riformismo autentico. Non gli premeva tanto passare per “giovane turco”, quanto rappresentare  un utile riferimento ideale e politico. Sui suoi documenti, sulle sue iniziative, sui suoi programmi si formarono personaggi come Antonio D’Amato (che di Confindustria trenta anni dopo sarebbe stato presidente) o come lo stesso Berlusconi (che addirittura sarebbe diventato Presidente del Consiglio per ben tre volte).

 

Quando il suo grande amico Francesco Cossiga parlerà del mondo industriale come di una singolare trincea di “socialismo reale”, per Renato era un linguaggio esagerato, paradossale, picconatore, ma riformista. Senza clamore mediatico, con serietà di argomenti, Renato al “socialismo reale” non faceva sconti (nè di prudenza, né di calcolo). All’Italia liberale voleva ancora più bene che all’immagine di sè e del suo partito.

 

Difficilissima vicenda quella del PLI. Benedetto Croce ne aveva scritto nell’immediato dopoguerra quell’articolo dello Statuto che gli riservava il ruolo di presidente d’onore e sopprattutto ne aveva teorizzato una identità di partito fra partiti e al tempo stesso di pre-partito della giovane democrazia italiana. Tale identità avrebbe inguaiato più volte i segretari del partito. In ogni stagione in tanti eravamo andati a cercare ospitalità in case diverse (lamalfiane, pannelliane, berlusconiane). Renato non ci aveva mai però negato amicizia e desiderio di confronto.

 

In lui, il PLI fu un amore esclusivo, irrinunciabile, orgoglioso. Quando negli ultimi vent’anni il PLI non c’era più, passare per Via Frattina divenne per lui quasi un tormento. C’è un episodio che spiega molto.

 

Accadde nell’estate del 1979. Pertini aveva conferito a Bettino Craxi l’incarico di formare il nuovo governo. A democristiani e repubblicani, vedovi ancora inconsolabili della solidarietà nazionale 1976-’79, quel mandato parve una provocazione. I liberali, al contrario, piccolo partito con una grande delegazione, incontrarono Craxi. Il quale espose ad essi un programma (atlantismo in politica estera, rigore in politica economica e finanziaria, garantismo a favore dei cittadini per contrastare il corporativismo della magistratura) fatto apposta per essere da loro apprezzato. Tanto che ad un certo punto si udì il vocione di Malagodi interrompere Craxi in questi termini: “...Craxi, ti aspettavamo a questo appuntamento da quasi cento anni...”. E Craxi a sua volta: “... Ma chi? Ma che significa?...”. E Malagodi: “...Come chi? Come che significa? Ascoltandoti, mi venivano in mente Giolitti, mio padre Olindo Malagodi, io stesso, la storia d’Italia...”.

 

In quei giorni, il governo Craxi non si fece. Ma Altissimo ritenne di dover raccontare l’episodio ad Arnaldo Forlani. Nel 1983 si sarebbe realizzato il governo Craxi-Forlani. Tanto Altissimo, quanto Spadolini, ebbero il merito di non ingelosirsi.

 

A Renato mai sarebbe sfuggito come, quanto, perché, l’incontro e la comprensione fra socialisti e liberali fosse una affermazione di democrazia. Là dove le generazioni giolittiane e turatiane prima, quelle malagodiane e saragattiane poi, avevano fallito, Altissimo e Craxi erano stati all’altezza delle circostanze, delle responsabilità, della collocazione occidentale dell’Italia.

 

Che quella delle grandi personalità liberali è materia di grande storia d’Europa, Renato lo sapeva, lo capiva. Ma per sè non ebbe mai premura di assicurarsi un ruolo di protagonista. Nel suo mondo ed a suo modo lo è stato sul serio. Non fu affatto un personaggio minore. Ricordarlo come un vinto, sepolto dalle macerie di tangentopoli è ingiusto e fuorviante. Il suo liberalismo mai si degradò a luogo comune.

 

Pochi come lui possono vantarsi di aver insegnato alle proprie figlie, al proprio partito, a tanti di noi che la vita è, come diceva Croce, più inevitabile della morte e, quindi, che la vita deve essere bella per forza. Addio, Renato, e grazie di tutto.

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