La copertina della Domenica del Corriere del 23 giugno 1912 mostra gli ufficiali sul luogo della battaglia di Zanzur

Andar a Tripoli. O no?

Gennaro Sangiuliano
La Libia, la guerra, l’interesse nazionale. Storia di un dilemma che non ci è nuovo. Per gli oppositori dell’impresa libica l’Italia avrebbe dovuto concentrarsi su un nazionalismo interno, non sull’illusione tripolina. Le aspettative italiane in nord Africa avevano una natura squisitamente politica con risvolti interni. La rivalità con la Francia.

Il 5 ottobre del 1911 appare su La Voce un editoriale a firma di Giovanni Amendola, s’intitola “A Tripoli”, l’articolo impegna la linea politica di quella che all’epoca è ritenuta la più influente rivista culturale. Amendola non è ancora l’esponente di peso del partito liberale, quello che diventerà il leader dell’Aventino contro Mussolini, è solo un giovane intellettuale che coniuga giornalismo e politica. “Il dado è tratto”, scrive categorico, “nulla ci sarebbe più caro che il dover riconoscere d’aver sbagliato”.
Il riferimento è al serrato dibattito politico e giornalistico che si è sviluppato nei mesi precedenti sull’opportunità di intraprendere l’impresa libica: scatenare la guerra con l’Impero Ottomano per assicurarsi questo pezzo sabbioso d’Africa settentrionale. La Voce, la rivista fondata da Giuseppe Prezzolini, molto di più di un giornale, il primo partito degli intellettuali della storia nazionale, era stata strenuamente contraria alla guerra libica, sostenendo l’inutilità dell’impresa.

 

Il 29 settembre del 1911, da poco tornato al governo, Giovanni Giolitti dava inizio alle operazioni militari per la conquista di quella che proprio dalle colonne della Voce Gaetano Salvemini aveva definito “lo scatolone di sabbia”. Per mesi due partiti, molto trasversali, avevano combattuto sui giornali. Nel marzo del 1911 erano cominciate le pubblicazioni dell’Idea Nazionale, il giornale nazionalista più attivo nel sostenere l’“ora di Tripoli”, ma anche grandi giornali, legati all’industria degli armamenti dell’epoca, come la Stampa e cattolici dell’Avvenire d’Italia. Alcuni inviati si erano distinti nel compiere quella che lo storico Franco Gaeta descriverà come “la prima grande campagna di informazione e disinformazione di massa della storia italiana”, descrivendo la Libia come un “paradiso terrestre”, terra piena di “ricchezze palesi”.

 

Il partito “antilibico” era variegato, oltre ai giovani della Voce e Salvemini c’erano Luigi Einaudi, Gaetano Mosca, Luigi Barzini, il grande orientalista Leone Caetani e un focoso giovane socialista massimalista, Benito Mussolini.

 

“L’illusione tripolina”, era stato il titolo di un numero intero della Voce dedicato a quella che secondo le parole di Giovanni Amendola era appunto “una grande illusione”. E Benedetto Croce, abbandonando per una volta lo stile del grande filosofo, aveva scritto che “il nazionalismo è una manifestazione terziaria della sifilide dannunziana”.

 

Per Amendola, Croce, Papini, Prezzolini e Salvemini, che avevano argomentato l’opposizione all’impresa libica, più che inseguire avventure estetizzanti e un colonialismo fuori tempo, l’Italia avrebbe dovuto concentrarsi su un nazionalismo interno che significava fare strade al sud, acquedotti, scuole pubbliche, ferrovie. “Vecchio e nuovo Nazionalismo” è il titolo a quattro mani di un saggio di Papini e Prezzolini dove viene ben precisata la differenza tra nazionalismo virtuoso e concreto, e quello della pura retorica.

 

Nel novembre del 1903, la nascita della rivista il Regno, la rivista diretta dal giornalista e scrittore Enrico Corradini, di cui Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini sono serrati collaboratori aveva segnato l’atto di nascita del nazionalismo italiano. Papini, caporedattore di questo primo giornale nazionalista, era stato l’estensore del Programma nazionalista; Prezzolini, invece, era stato l’autore di saggi destinati a segnare i tratti del pensiero nazionalista: “L’aristocrazia dei briganti”, “La borghesia può risorgere?”, “A chi giova la lotta di classe?”, “La menzogna parlamentare”, “Organizzazione borghese”. “Il Regno”, chiarirà Prezzolini, “fu antimassonico, antidemocratico, antisocialista; rivendicò il valore della guerra, della conquista coloniale, della lotta sociale; combatté gli umanitari, i pacifisti e i cordiali sociali”.

 

Corradini aveva abbandonato la direzione del Regno nel 1905, da allora le strade si erano irreparabilmente divise. Il movimento nazionalista aveva cominciato a svilupparsi in forme sempre più politiche e La Voce ne era diventata un critico pignolo e costante. Le polemiche di quegli anni, fra vociani e nazionalisti erano feroci, personali, spinte fino allo scontro fisico.

 

Il nazionalismo propugnato da Corradini e dalla sua cerchia, secondo Prezzolini, non offriva la prospettiva di un reale mutamento, perché era fermo ad un alone letterario e retorico, carico di paroloni. L’accusa era chiara: “Si presta soprattutto a dar materia alla nostra inclinazione retorica e allontana il pensiero da quei problemi pratici e precisi interni che avevano cominciato a preoccupare gli italiani”.

 

Dunque, sulla Libia il pensiero nazionale si divide. “Anche ammesso che la Cirenaica si offra all’impiego di capitali e di braccia e che l’Italia abbia, oltre alle braccia, i capitali”, scrive la Voce, “bisognerebbe dimostrare che noi italiani abbiamo la capacità di organizzare amministrativamente il nuovo territorio, in modo da darvi un serio slancio alla produzione, invece di soffocarla sotto il funzionalismo inerte, parassita e devastatore. C’è bisogno di ricordare che questa capacità manca oggi a noi; che ci siamo dimostrati incapaci di assicurare in Sicilia finanche le condizioni fondamentali dell’ordine pubblico”.

 

L’impresa coloniale in Libia era una questione che aveva tenuto banco almeno tre anni nella politica italiana, nel 1908 nel giornalismo italiano era stata coniata la formula dell’“andar a Tripoli”, Enrico Corradini che nel 1910 aveva trasformato il suo sodalizio intellettuale in partito politico ne era il primo paladino. L’impresa libica convince addirittura il Corriere della Sera diretto da Albertini, mentre i giornali giolittiani, la Tribuna e la Stampa, simpatizzano. Una voce insospettabile, quella di Giovanni Pascoli, si era unita ai favorevoli alla guerra, che scriverà la “grande proletaria si è mossa”.

 

I vociani, invece, sono il gruppo intellettuale che si oppone all’“andar a Tripoli”, non è un’opposizione anticolonialista, umanitaria, Prezzolini precisa la distanza dal pacifismo internazionalista, non vuole essere confuso con i socialisti. Le sue ragioni sono strettamente legate a opportunità e valutazioni economiche. Per i nazionalisti la Cirenaica è un Eldorado, capace di assicurare ricchezze e lavoro; Salvemini, invece, cita uno scrupoloso studio fatto fare dal Congresso internazionale ebraico, che in quegli anni era alla ricerca di un insediamento per gli ebrei. I suoi contenuti sono assolutamente sfavorevoli a ogni insediamento in Libia.

 

Lo studio è messo a punto dall’Ito, la Jewish territorial organisation, una delle tre grandi organizzazioni ebraiche mondiali che agli inizi del Novecento era alla ricerca di una patria per gli ebrei in fuga dai pogrom russi. A guidare la spedizione per conto dell’Ito fu il professor J. W. Gregory, capo dei geologi dell’Università di Glasgow ed esponente della sezione geologica del British Museum che aveva coordinato un’equipe di esploratori britannici non solo di religione ebraica. “La Cirenaica non è adatta all’immigrazione perché manca assolutamente di acqua e non è possibile procurargliela”, aveva concluso inesorabilmente la relazione. Fra gli studi allegati quello sulle piogge basato su una tabella delle precipitazioni fra il 1891 e il 1904 che aveva fatto dichiarare al professor Gregory di essere “contrario ad ogni possibilità di colonizzazione agricola”.

 

Il petrolio, agli inizi del secolo scorso, era ancora un oggetto misterioso che solo gli americani stavano sfruttando, il colonialismo a cui pensava l’Italia era quello agricolo per offrire campi alle braccia in fuga con l’emigrazione di massa.

 

Per rafforzare le argomentazioni del dibattito sulla Libia, la Voce pubblica un numero speciale sulla “Questione meridionale”, dove Prezzolini raduna firme autorevoli come quella di Giustino Fortunato e Luigi Einaudi. Gli articoli sono tutti improntati a una rigorosa analisi dei ritardi del Mezzogiorno ma è chiaro che gli argomenti utilizzati conducono a una valutazione dell’utilità dell’impresa libica. La descrizione delle condizioni del sud puntano a convincere l’opinione pubblica che l’Italia avrebbe fatto meglio a concentrare lì i suoi sforzi.

 

Quando la questione libica si profila all’orizzonte Giovanni Giolitti è timido, lo “scatolone di sabbia” non lo entusiasma, l’Italia ha scarse risorse finanziarie per la guerra. Tuttavia, da grande manovratore coglie le opportunità politiche, fare l’impresa coloniale può tacitare i nazionalisti e limitarne l’ascesa, inoltre, questa concessione a destra gli consentirà di lì a poco di introdurre il suffragio universale, il voto a tutti i maggiorenni di sesso maschile, un’autentica riforma democratica.

 

L’Italia aveva chiuso l’Ottocento macerandosi nella vergogna della battaglia di Adua, quando nel 1896 la sconfitta inflitta dal negus Menelik II al generale Oreste Baratieri, oltre a costare seimila morti, aveva chiuso ogni ambizione coloniale italiana nel Corno d’Africa. Lo statista di Dronero avverte quello che definisce un “vago bisogno di fare qualcosa”, indipendentemente dall’utilità economica della Libia occorre affermare le ragioni ad uno spazio internazionale dell’Italia, riscattare quella che in quei giorni Giovanni Pascoli definisce come “la grande martire delle nazioni”.

 

A fine luglio appare sulla Stampa una “Lettera aperta all’onorevole Giolitti” a firma di Giuseppe Bevione. A Giolitti si riconosce il “poderoso sviluppo”, l’avvio dell’industrializzazione, la stabilizzazione politica dell’Italia, ma si avverte che la sua politica ha un grave limite. “Il limite sorge quando la ripugnanza ad occuparsi di una questione esterna, per quanto assicuri pace”, scrive il giornalista che diventerà uomo politico, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con Bonomi, “può determinare danni maggiori che affrontarla decisamente”. E lancia un’esortazione: “Vi sono momenti della vita dei popoli in cui tocca agli uomini della pace e delle riforme assumersi il ruolo degli uomini della guerra”.

 

Dunque, in realtà le aspettative italiane in nord Africa avevano una natura squisitamente politica con risvolti interni, erano la vecchia questione della rivalità fra la Francia e l’Italia con implicazioni legate al commercio nel Mediterraneo. I francesi avevano già proceduto all’occupazione della Tunisia, stroncando le mire italiane verso una terra dove già si era insediata una forte emigrazione italiana, poi il Trattato del Bardo, del 12 maggio 1881, aveva sancito il protettorato francese. Ne era seguito il gelo diplomatico, con un conseguente scontro sul terreno economico, mentre le antipatie popolari erano culminate nei moti antitaliani di Marsiglia nel 1882. Su queste premesse, non del tutto lontane dalla tutela dell’interesse nazionale, era germogliata l’impresa libica, uno sfogo per i risentimenti e delle frustrazioni che per almeno due decenni attraversavano i ceti borghesi; il miraggio libico è un modo per convogliare energie – come osserverà Antonio Gramsci – che sposa la tesi della Voce sulla necessità di concentrare gli sforzi sui ritardi del Mezzogiorno d’Italia.

 

Il nazionalismo non è più un tratto elitario, si va diffondendo tra i ceti borghesi e piccolo borghesi della nuova Italia cresciuta d’impeto dall’industrializzazione. Il movimento nazionalista animato dal giornalista scrittore Enrico Corradini gli conferisce un’anima culturale, forgiata sui modelli francesi de Les Déracinés e Scène et Doctrines du nationalisme di Maurice Barrès e soprattutto sull’esperienza de l’”Action Française” di Charles Maurras. Nella tesi su Classi proletarie: socialismo, nazioni proletarie: nazionalismo, Corradini insiste sulla distinzione tra sfruttamento di classe semplice e sfruttamento composto “di rapporti internazionali, di emigrazione nostra, di conquiste e di colonie altrui” e lancia il mito delle “nazioni proletarie”.

 

Norberto Bobbio nel saggio su La cultura italiana fra Ottocento e Novecento scrive che “la questione nazionale” diventa “l’unica e autentica questione sociale”. Quindi, sia pur da posizioni estremamente critiche – perché immediatamente aggiunge che “soffiò a piene gote nelle trombe della retorica della guerra” – il filosofo torinese coglie il tratto centrale e innovativo del nazionalismo di Enrico Corradini: il superamento del vecchio patriottismo come ambito intimistico e tardo romantico al fine di porre la nazione come questione viva della società italiana. Il nazionalismo è l’alternativa non solo politica e culturale ma soprattutto sociale alla lotta di classe marxista; la riconquista dell’unità nazionale, pur utilizzando alcune istanze del socialismo, può ricomporre le fratture di classe che il nuovo secolo minaccia.

 

La guerra per Tripoli fa presto a diventare un mito popolare, l’avvenente stella dell’operetta Gea Della Garisenda canta al Teatro Belbo di Torino le strofe della canzone “A Tripoli!”, “Tripoli bel suol d’amore ti giunga dolce questa mia canzone” che fa presto a fare il giro delle orchestrine italiane. Gabriele D’Annunzio compone le “Canzoni delle gesta d’Oltremare” pubblicate dal “Corriere della Sera”.

 

Giolitti chiuderà bene la faccenda libica sul tavolo diplomatico, consacrando la sua leadership politica. Noterà La Voce: “Giolitti (l’uomo antinazionalista per eccellenza, il piemontese, in babbucce, l’addormentatore nefasto) è andato a Tripoli….”. Tutto sommato l’Italia si scontrerà con una potenza come l’Impero Ottomano e vincerà, mostrando un’insperata organizzazione e sanando la ferita della sconfitta di Adua.

 

[**Video_box_2**]Dopo essersi opposti con ogni argomento all’azione coloniale in Libia, con l’editoriale, A Tripoli, La Voce decide di sostenere la guerra per onorare un sentimento di unità nazionale. Non è un cambio repentino di posizione ma l’esaltazione di una posizione di coesione, per la quale occorre mettere da parte le divisioni. “Noi stimiamo la disciplina come massimo pregio”, avverte Amendola “così degli individui che delle nazioni, e non mancheremo al nostro dovere di disciplina nazionale in questa occasione…”. E Prezzolini aggiunge: “La guerra è l’esame generale cui la storia chiama ogni tanto i popoli”. Riccardo Bacchelli scriverà che questa guerra ha rivelato la disciplina agli italiani. A causa di questa posizione nazionale Salvemini abbandonerà polemicamente la collaborazione con La Voce.

 

I socialisti, almeno in linea di principio, osteggiano la guerra ma non vogliono apparire antinazionali e puntano a incassare il suffragio universale che con l’allargamento della base elettorale li farà diventare un grande partito. Gli unici a opporsi davvero alla guerra sono i sindacalisti rivoluzionari, che proclamano uno sciopero generale il 27 settembre del 1911. Riesce, però, solo nella cittadina di Forlì. L’Italia avrà lo “scatolone di sabbia”.

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