Renzi e la Liberazione 2.0
L’Italia di Matteo Renzi ha rimesso la Liberazione al centro del villaggio e pare voglia fare della Resistenza un capitolo ulteriore del suo storytelling. La rotondità dell’anniversario, il settantesimo, aiuta non poco. E certo contribuisce la presenza al Quirinale di un uomo come Sergio Mattarella, il cui primo atto da presidente della Repubblica è stato visitare le Fosse Ardeatine. Mattarella è un democristiano dell’età di mezzo, appartiene per formazione morotea e latitudine culturale (cattolico-popolare) a un ambiente poco incline a negoziare sui valori fondanti della Costituzione antifascista. Per quelli come lui, l’arco costituzionale ha rappresentato più d’un caveat da issare a protezione delle istituzioni contro ogni forma e ogni sostanza riconducibili all’autoritarismo novecentesco. Come ha ricordato Marcello Sorgi in tivù (“Agorà”), vari indizi lasciano immaginare che Mattarella stia apportando un “correttivo” alla più recente versione “neutralista” della dialettica politico-storiografica tra fascismo e antifascismo rimodellata durante il così detto ventennio berlusconiano. Dal 1994 in poi, la nascente cometa politica del Cav. ha portato con sé una svelta inclusione dei missini ai piani alti della democrazia governante e si è intrecciata con la formazione, a sinistra, di un partito post comunista che dimostrava (sia pure a intermittenza) la capacità di aprirsi all’autocritica e al confronto con mondi prima di allora infrequentabili. Ne derivarono alcuni sofferti e coraggiosi segnali da parte di leader o esponenti di primo piano usciti sconfitti dal Novecento ma vincitori dalla tempesta di Mani pulite.
Ricordo come a tre anni dall’ineluttabile lavacro antifascista di Fiuggi (1995) i post missini ricevettero dall’allora presidente della Camera, l’ex pm Luciano Violante, l’inusitata apertura verso le ragioni dei “ragazzi di Salò” che si accompagnava perfino alla disponibilità verso un dibattito bipartisan su un’amnistia per Tangentopoli. Giorgio Bocca provò a inchiodare Violante all’ammissione che “la Resistenza e la sua cultura sono fallite perché non sono diventate patrimonio nazionale”. Era il 1998, anno di Bicamerale, sinistra post comunista e destra liberal-nazionale erano e sopra tutto mostravano di sentirsi forti. Gianfranco Fini avrebbe poi restituito il favore con gli interessi, nel 2003, arrivando a definire “male assoluto” il fascismo con le sue leggi razziali. Se pure all’epoca non mancarono polemiche e retropensieri sospettosissimi su calcoli personali e obiettivi tattici di certe sortite (nel 2007, con “Il passo delle oche”, l’editore Einaudi mi consentì un frontale durissimo contro quella destra, ma da una posizione di destra aristocratica ed era un altro segno dei tempi irripetibili), finì per prevalere l’impressione di una svolta storica, nacque una piccola ermeneutica: era possibile l’ingresso dell’Italia in un’età matura, quasi pacificata e perfino troppo ecumenica (aggettivo usato da Bocca, in senso spregiativo) ma in ogni caso più vicina a quell’autobiografia della nazione in cui sembrava lecito parlare di guerra civile a proposito del 1943-’45.
A distanza di non molti anni tutto è cambiato, forse à rebours, forse anche no. Silvio Berlusconi è ancora l’indispensabile coda di cometa d’una stagione bipolare e il potenziale contraente di un ultimo patto riformista e di sistema. Ma appunto di coda parliamo, foss’anche quella fondativa di un Gop all’italiana lanciato ieri dal Cav. La destra discesa dai “fratelli in camicia nera” cui si rivolse Palmiro Togliatti ha lasciato dietro di sé qualche fiction televisiva revisionista, poi si è sciolta e frammentata fino al prosciugamento. Un fallimento parallelo è quello della sinistra erede dei “corporativisti impazienti” accarezzati da Giovanni Gentile, che si è prima ibridata con il cattolicesimo popolare e subito dopo ha esibito una spettacolare capacità autodistruttiva (dall’ulivismo prodiano in giù): oggi agonizza ai margini della New Left fiorentina di Palazzo Chigi, stonata, offesa e concupita dal paleosindacalismo cigiellino o dal neogruppettarismo delle brigate tsipriote e landiniste, fra terrore e miseria del quarto Reich merkeliano. Tolti Beppe Grillo e gli astenuti, cioè il nuovo nero resistente alla reductio ad hitlerum ma comunque inindossabile e un mercato elettorale sommerso, il cuore della scena, la parte maggioritaria e più in forma dell’attuale nostra histoire événementielle, è occupata da un Matteo Renzi senza rivali. E veniamo a lui.
Se la festa della Liberazione riemerge al centro di una memoria che torna a essere più selettiva e meno condivisa per sopraggiunto decesso dei potenziali condivisori, Mattarella è il ripescato istituzionale sicuro. Il premier e segretario del Pd fa un gioco diverso e aggiornato ai tempi e agli strumenti in dotazione alla sua figura in fondo estranea, e non soltanto anagraficamente, alle consuete liturgie resistenziali della sinistra. Eppure, come ha scritto l’Huffington Post, in vista del 25 aprile Renzi sta mobilitando ingenti risorse ed energie per “riprendersi la parola sinistra”. Per farne cosa? La prima spiegazione è che voglia svuotare di senso le incursioni della sua minoranza goscista, e tuttavia il risultato potrebbe oltrepassare le premesse. La visita di Renzi al cimitero americano di Firenze, più ancora della commemorazione delle vittime di Marzabotto e di Giuseppe Dossetti a Monte Sole (non parliamo poi della kermesse Rai nella piazza quirinalizia con Fabio Fazio e Ligabue) si combina con le iniziative nelle scuole annunciate dal sottosegretario Luca Lotti (Renzi si mostrerà proprio in una scuola, dopo la cerimonia all’Altare della Patria?) in omaggio a una pedagogia novella e internettiana – “lanceremo una ‘call to action’ su Twitter per far ragionare su cos’è il coraggio” – rivolta a classi d’età fiorite nella più completa deideologizzazione: più che la “Generazione Bella Ciao”, la “Generazione Ciao Bella”. Non che scompaia il vecchio apparato simbolico dell’Anpi, quello che perfino il Cav. premier-partigiano tentò di aggiornare a Onna nel 2009, quando disse che “64 anni dopo il 25 aprile 1945, e a vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, il nostro compito, il compito di tutti, è quello di costruire finalmente un sentimento nazionale unitario”. Ma se qualcosa di nuovo può muoversi in questa direzione, la direzione in cui s’incontrano avversari politici e non arcinemici, verità storiche inamovibili ma non più ferite lancinanti e suprematismi antropologici, questo dipende soltanto da Renzi.