Una parata di vanità querula, soddisfatta e un po’ ringhiosa, in questo disordine che già odora di crisantemi

La Puglia smarmellata

Salvatore Merlo
La sicumera panciuta del già vincitore Emiliano. La nobiltà della sconfitta Poli Bortone e del rivale consanguineo Schittulli, parallelamente spelacchiati dal Cav. e Fitto.

E’ attraverso l’ilarità di certe situazioni che si sente nell’aria l’incombere di una catastrofe piccola o grande, o piuttosto il presentimento della disgrazia, dell’infortunio: la pantomima è sempre a un passo dal dramma. E dunque nel mobilissimo circo delle candidature pugliesi, nel contorsionismo di Adriana Poli Bortone, famosa  perché in Puglia fece perdere il Cavaliere ma adesso è voluta dal Cavaliere, e nel pasticcio di Francesco Schittulli, iscritto a Forza Italia ma candidato contro Forza Italia, e dunque candidato contro la Poli Bortone (che però è iscritta a Fratelli d’Italia che però con Berlusconi ha litigato), insomma in questo marasma ritorto si rivela quell’antico adagio secondo il quale nel mezzogiorno d’Italia la via più corta tra due punti è un nodo sabaudo. E infatti in Puglia il centrodestra si trasforma in un labirinto di specchi, strambe candidature e disarmonie elettorali per mettere in scena, e nel modo più bizantino e attorcigliato che fantasia umana potesse immaginare, e in un grottesco teatro della crudeltà e della dissipazione in cui i veri attori rimangono mascherati, il crepuscolare conflitto tra Silvio Berlusconi e Raffaele Fitto, tra l’anziano Sovrano e il giovane Campiere pugliese. Sono loro i duellanti occulti che non faranno le primarie per la leadeadership del centrodestra in frantumi, come sarebbe logico e persino civile, ma che hanno stabilito di misurarsi e senza nemmeno dichiararlo, per interposti candidati e clientele, per interposto Schittulli e interposta Poli Bortone, proprio lì, a casa di Fitto, tra il Salento e i Trulli, tra la spiaggia di Gallipoli e Bari vecchia. E così, nella città e nella regione che furono di Pinuccio Tatarella e che segnarono ormai quasi vent’anni fa la fierissima grandeur d’una destra vittoriosa e di governo, sono tutti orfani e vitellonescamente in guerra tra loro. “Ah quando c’era Pinuccio”, dice uno alla mattina. “Che vuoi, una volta c’era Pinuccio”, dice l’altro dopo la pennichella. “Ci vorrebbe Pinuccio”, dice un terzo quando ormai è calata la notte nel capoluogo delle promesse mancate, in questa Bari di ferree memorie e di astuzie levantine, nella città che, dopo averlo avuto come sindaco, adesso è certa che Michele Emiliano, specie ora che ha scoperto le virtù del matteorenzismo, presto diventerà presidente della regione.

 

Il centrodestra è nudo, tutti possono vederlo e infierire senza pietà: eccolo lì con due candidati consanguinei, con i simboli contesi (“Forza Italia è mia”, “no mia”), senza alleanze coerenti, senza più metodo, le correnti impazzite e i cacicchi in rivolta, un carosello autolesionista spinto agli estremi limiti, tanto che Emiliano, baldanzoso e ruspante com’è, qualche giorno fa su Twitter si è rivolto a un imitatore di Frank Underwood, il machiavellico personaggio di “House of Cards” interpretato da Kevin Spacey: “Please help, find a republican candidate for Puglia (Italy) elections. I’m the democratic one, still alone”, per piacere trova tu un candidato che mi si contrapponga.

 

E il fascino di Emiliano risiede in quella che si potrebbe chiamare la caratterizzazione della schiettezza. Grande grande, tombolotto, con la faccia piena e l’aria simpatica, è un uomo impetuoso, il che s’inquadra nella psicologia meridionale, e possiede un senso istintivo dell’umorismo nonché un curvo senso del potere. Da pubblico ministero di Bari si fece sindaco della città in cui aveva indagato, abile e ammiccante a ogni istinto, ogni umore, ogni elettorato, da D’Alema a Ingroia e De Magistris, fino a Renzi. Sgominò le gang della sacra corona unita nel gigantesco quartiere Japigia, lì dove poi, da candidato sindaco, bussava a tutte le porte per cercare i voti, proprio lì, nel quartiere al limite della legalità. E mise sotto inchiesta la missione Arcobaleno di Massimo D’Alema, ma poi di D’Alema divenne un beniamino politico. Così come diceva peste e corna di Berlusconi, infiammato da una tensione che lo aveva spinto persino a presentarsi come testimone dell’accusa al processo contro Marcello Dell’Utri, ma da politico seppe invece sorprendere e insidiare carezzevolmente il recinto elettorale della destra, quando nel 2013, di fronte a una piazza in cui avrebbe dovuto parlare il Cavaliere, srotolò un manifestone sulla facciata del comune, con i colori e lo stemma della città: “Caro Silvio, bentornato a Bari”. E così via, fino a marzo del 2015, in clima nazarenico, quando dopo l’assoluzione di Berlusconi in Corte di Cassazione disse che la procura di Milano avrebbe dovuto scusarsi con il Cavaliere. Nel 2012 inciampò nella nota disavventura giudiziario-gastronomica delle “cozze pelose”. Da parte di un imprenditore nei guai gli arrivò per Natale il seguente, pantagruelico pacco dono: champagne, vino, formaggi, ostriche imperiali, quattro “spigoloni”, designati al maschile, e venti scampi, cinquanta noci bianche (prezioso mollusco bivalve, in estinzione), cinquanta cozze pelose, appunto, due chili di seppioline di Molfetta e otto astici – oltre al ghiaccio necessario per conservare tutto. Alle comunali vinse la prima volta nel 2004 con il 53,8 per cento dei consensi, e poi di nuovo, nel 2009 dopo un ballottaggio con Simone Di Cagno Abbrescia, già sindaco della rinascita barese nel 1995 e nel 1999. Adesso Emiliano si muove con la baldanza di chi ha già la vittoria in tasca, anche stavolta, ma per abbandono e manifesta incapacità di sfidanti che non si occupano di lui, impegnati a fare a mezzo di ciò che resta del centrodestra pugliese, quel bacino di voti che pure alle ultime elezioni politiche era ancora enorme, tanto che in Puglia, due anni fa, sotto le bandiere ancora berlusconiane, scattò il premio di maggioranza per il Senato. Oggi i più pessimisti temono che il consenso della destra, tutta, sommando tutti i voti, quelli di Schittulli e quelli di Poli Bortone, quelli del Cavaliere e quelli di Fitto, quel consenso che pure fu grande e che secondo i sondaggi è ormai sullo scremato, si riduca a pura acquetta.

 

E gli uomini della destra sembrano esibirsi in una parata di vanità querula, soddisfatta e un po’ ringhiosa, e nulla, in questo disordine che già odora di crisantemi, nulla incrina la remissività sacrificale dei candidati Schittulli e Poli Bortone: sanno di non vincere, nessuno dei due gioca in realtà per vincere, ma entrambi giocano per azzoppare l’altro e indossano dunque elmo e corazza per conto dei padrini occulti, di Fitto e di Berlusconi, i veri duellanti nell’ombra. Fitto deve centrare nella sua Puglia un risultato tra il 10 e il 20 per cento dei consensi, per interposto Schittulli, se vuole proiettarsi a Roma e tentare la scalata al cielo, altrimenti resterà un piccolo fenomeno locale. E Berlusconi invece vuole umiliarlo e affondarlo, strozzarlo nella culla, per interposta Poli Bortone, che lui ha precipitosamente recuperato da una prematura musealizzazione da vecchia gloria politica, e dunque candidato: “Non accetto di prendere ordini dalle pulci”.

 

L’ultima volta che si sono incontrati, il capo saltellava imbestialito, con l’indice puntato a due centimetri dal naso di Fitto: gli diceva traditore, gli diceva democristiano. Mentre Raffaele rivedeva Berlusconi con distacco, come si incontra un estraneo, gli si rivolgeva come un leader che parli a un altro e più anziano leader, dunque poneva condizioni, alla pari: o si va avanti come dici tu, e fra sei mesi non c’è più niente, un solo elettore, oppure si fa come dico io, e allora forse nasce qualcosa di nuovo…
E c’è insomma un candore di fondo – o se vogliamo una inadeguatezza, che li redime, alla fine – in questi candidati di paglia alla sconfitta e alla guerra intestina, nel professor Francesco Schittulli, oncologo di fama, e in Andriana Poli Bortone, che fu ministro e formidabile sindaco di Lecce. C’è un che di rispettabilissimo nelle loro maschere un po’ meste, nelle loro biografie che forse non meritavano questa condanna allo spelacchiamento, in loro che aizzati dalla collera altrui vengono mandati avanti privi di riferimenti come cavalli imbizzarriti.

 

La signora Poli Bortone sembra essersi abbandonata a questa strana corsa con lo spirito sentimentale di chi rimpiange il passato e vorrebbe fermare l’attimo fuggente. Lei, alta e sicura di sé, sempre chiusa in una raffinata eleganza, è stata tutto nella destra italiana, e sempre è stata aristocraticamente lontana dalle sue alterne sguaiataggini: deputato del Msi e di An, poi del Pdl, eurodeputato, sindaco ancora rimpianto di Lecce, ministro dell’Agricoltura nel primo governo Berlusconi. E per quasi vent’anni ad animarla, nei suoi successi, non è stata che la sicurezza, anzi la certezza d’essere attrice e non agita, l’orgoglio d’essere la vivente fatalità della destra meridionale, l’erede salentina della destra barese di Tatarella.

 

Ed era un clima di delirante ammirazione, persino eccessivo, quello che circondava questa gran virtuosa della destra, dall’aspetto perbene, quando nel 1998 diventava sindaco della primavera leccese, quando Gino Paoli diceva “lei è proprio fascista, ma ha fatto di Lecce un fiore”, e sembrava davvero che potesse scalare le pareti lisce della politica nazionale, fino a su, su, su… Fin quando quell’eccesso d’indipendenza, quella forza personale forse non le si ritorse contro, quando nel 2007 Gianfranco Fini le preferì il vaporoso Andrea Ronchi, più malleabile e fedele, al ministero delle Politiche comunitarie. E da allora lei è rimasta come avvolta dai miasmi del rimpianto, e da un remoto e inconsolabile senso di rivalsa, ha zampettato da un partito all’altro, si è lentamente oscurata. Ed è infatti probabile che l’infelicità privata di Poli Bortone, ciò che l’ha spinta anche in quest ultima corsa a perdere, in larga misura dipenda dal perfezionismo con cui si è consacrata interamente all’artificio della politica per essere poi delusa, tradita, cancellata di colpo.

 

[**Video_box_2**]E già una volta, nel 2010, insinuandosi nel suo animo esacerbato, quella serpe di Casini la spinse a candidarsi alla guida della Puglia per l’Udc. Lei non vinse neanche allora, com’era chiaro sin dall’inizio, ma ancora una volta il suo nome altisonante servì ad azzoppare un altro candidato del centrodestra, quello del Pdl, Rocco Palese, poi battuto da Nichi Vendola. E ci sono dunque incrostazioni di vecchi rancori in questa storia pugliese, faide strapaesane, tra ulivi e pomodori, cime di rapa e orecchiette, urne e rapporti personali incrinati: il Cavaliere l’avrebbe voluta alla guida della regione già nel 2010, ma Fitto si oppose, e allora lei scelse Casini e fece perdere Fitto e infuriare Berlusconi. E dunque ancora oggi nessuno perdona nessuno: Fitto non perdona Poli Bortone e Poli Bortone non perdona Fitto, che ovviamente non perdona il Cavaliere, da cui in tutta evidenza non è perdonato.

 

E c’è un misto di speranza, piacere e angoscia per queste attese elezioni. Angoscia e piacere sono inseparabili, come un duplice pungolo che graffia, sperona, ferisce. Si sta seduti sulle puntine da disegno, non sugli allori, e si assiste a uno sciupìo di storie personali, di carriere, di biografie che sarebbero state degne di guadagnarsi la possibilità di partecipare a un concorso elettorale meno sgangherato di questo. Il professor Schittulli, già presidente della Lega italiana per la lotta ai tumori, chirurgo, direttore dell’Istituto oncologico di Bari, medaglia d’oro al merito della sanità pubblica, come la signora Poli Bortone, si candida, ma affranto e festoso come un cane abbandonato, e va pure lui consapevolmente a schiantarsi contro Michele Emiliano, schiacciato nella morsa dei titani Berlusconi e Fitto, con una caparbia risoluzione a non voltarsi verso la verità: “Di questa guerra che si fanno tra loro non mi importa nulla. In Puglia oltre il 40 per cento degli elettori non vuole andare alle urne. La mia scommessa è convincerli. E posso farlo”, gli occhi rossi e le dita deluse, a sfilare ingannevoli assi di poker.

 

Giorgia Meloni aveva proposto di fare le primarie, entro domenica, di scegliere uno e uno solo dei due candidati, di farla insomma finita con la baruffa. Ma domenica è tra due giorni, e quella di Meloni è subito sembrata poco più della mossa disperata di chi vede la natura del sentiero che il centrodestra sta percorrendo in Puglia, impervio e come oscurato in un’incognita di foresta. Le primarie, entro domenica? “Sì, no, forse”. La signora Poli Bortone ha detto “sì”, ma per farsi dire di “no” da Forza Italia e dalla Lega. E insomma tutti appaiono scettici, quasi si trovassero di fronte a venditori ambulanti di lamette per rasoio. Non se ne farà niente, delle primarie. E alla fine, in questo canaio animatissimo, soltanto Emiliano è dominato dal sentimento della vittoria, gli altri da quello della solitudine e del dissolvimento, sembra quasi di sentirli, come soffi: puff.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.