Buongiorno onorevole Cantone
“No! Non faccio politica, faccio un altro mestiere. Ma su chi fa il magistrato, e sulla storia della supplenza, ho molte cose da dire”. Chiacchierata strong (a sportellate) con il capo dell’anti corruzione, a un anno dalla nomina - di Claudio Cerasa
Buongiorno onorevole Cantone. “Ma come onorevole? Ok, su, ho già capito come finisce qui…”. Lo abbiamo provocato, stuzzicato, persino tormentato. Lo abbiamo definito un Di Pietro più pettinato e certamente più alfabetizzato. Lo abbiamo descritto come il vero e unico e possibile anti Renzi presente in circolazione. E lo abbiamo raccontato spesso su queste pagine come se fosse l’emblema massimo di un vecchio e insostenibile vizio italiano: quello del magistrato eroe che tradisce il principio della separazione dei poteri di Montesquieu e che non disdegna l’idea che un pm possa avere la possibilità di trasformarsi nel grande supplente della politica: nell’anti corruttore unico delle coscienze. Gliene abbiamo dette di tutti i colori a Raffaele Cantone e, dopo averlo fatto, abbiamo chiesto al presidente dell’Autorità anti corruzione, a un anno esatto dal suo insediamento in Via Minghetti 10, a Roma, se fosse disponibile a ragionare con noi su una serie di temi che oggi ci sembra centrale. Il rapporto tra la politica e la magistratura. La magistratura che tende ad avere sempre più un ruolo da custode del codice morale e non solo del codice penale. Risposta positiva.
Cominciamo subito, senza girarci attorno. Onorevole Cantone – diciamo con un sorriso – non le sembra quanto meno anomalo che il governo Renzi abbia trasferito sulla sua figura il compito non solo di combattere la corruzione ma di moralizzare il paese? Non dica che non è vero! “Posso?”. Prego. “Trovo profondamente sbagliato chi prova a trasformare il magistrato in una figura eroica che con la bacchetta magica può risolvere ogni problema e non mi sembra quello che sta succedendo in questa fase storica per il nostro paese, né tanto meno quello che sta facendo il presidente del Consiglio. Il problema, se mi consente, è diverso e mi piacerebbe argomentare”. Prego, prego. “L’illusione che il magistrato possa essere uno sbianchettatore del Male è un’illusione che viene coltivata prevalentemente dalla politica e non dalla magistratura. E se mi permette mi verrebbe da dire che la supplenza della magistratura, che esiste, è legata più all’assenza della politica che alla strapresenza della magistratura”. No, la prego. Non mi dica che i magistrati sono costretti a fare i supplenti, poverini, e che se fosse per loro starebbero buoni-buoni a occuparsi solo di processi, su. “Ci sono magistrati bravi e magistrati non bravi, come in tutte le categorie, ma per rispondere alla sua domanda io verrei mettere al centro della nostra conversazione la figura del magistrato medio, di buon senso, corretto, e che non usa questo mestiere come un taxi”. Sì, ma arrivi al punto. “Le offro questo ragionamento. Io dico che esistono due grandi scuole di pensiero da inquadrare per spiegare cosa significhi fare questo mestiere. La prima scuola di pensiero dice che il giudice e il magistrato debbano parlare solo con le sentenze, senza interfacciarsi con nessuno e senza trasferire nella società i temi affrontati nei propri processi. La seconda scuola di pensiero dice invece che l’idea che il magistrato e il giudice debbano essere figure isolate che non si interfacciano con i cittadini è un’idea perdente e che prescinde da un fatto importante: un giudice che non porta nella società le sue battaglie, che si chiude dietro i banchi del tribunale, che evita deliberatamente di confrontarsi con i cittadini, è un giudice che fa a metà il suo lavoro”. Immagino lei sia della seconda scuola. “Lo sono con convinzione, perché sono convinto, immagino come lei, che il magistrato che usa il suo ruolo per formare un consenso politico è un magistrato che agisce in cattiva fede. Ma dall’altra parte sono convinto che un magistrato che svolge un ruolo pedagogico nella società sia un ingrediente fondamentale e non secondario della lotta all’illegalità”. Illegalità o immoralità? “Illegalità”. Si rende conto che il perimetro della “pedagogia” è così sottile che potrebbe essere superato in qualsiasi momento? “Togliamoci i paraocchi. Io credo che il magistrato non debba dare in nessuna occasione l’impressione di essere un giudice di dio, ovverosia un giudice che risponde a un indirizzo supremo e inviolabile. Il giudice agisce nel perimetro della legge ma agisce anche per offrire un servizio al paese. E prima che lei mi dica ‘eh, ma questa è politica’ le faccio un esempio”. Sentiamo. “Se Giovanni Falcone, che mi sembra possa essere ricordato come quanto di più distante ci possa essere rispetto alla figura del magistrato politicizzato, non avesse portato la sua esperienza della lotta alle mafie nelle piazze, nei cortei, nelle scuole, lei crede che la lotta alla mafia sarebbe stata più efficace o meno efficace? Io dico che sarebbe stata meno efficace. Ed è questo che intendo per pedagogia”. E se poi, come capita spesso, il magistrato che fa pedagogia sceglie di mettere la sua pedagogia al servizio della politica? Non sarebbe, vostro onore, una prova sufficiente per dire che quel magistrato ha utilizzato la sua carica per costruire un consenso, altro che pedagogia? “Accetto la provocazione e le rispondo nel merito. Sì, il rischio esiste, ma credo che sia un rischio che esiste in molti altri mestieri. Un medico che utilizza il suo lavoro per fare il politico o per guadagnare molti soldi in altre attività non è nelle stesse condizioni? E un prefetto – che sulla vita delle persone ha un potere in molti casi persino superiore a quello di un magistrato – che si mette a far politica dopo aver lavorato in prefettura non corre gli stessi rischi?”. Forse, ma io le ho chiesto dei magistrati. “Non mi sottraggo, le rispondo. Nella nostra categoria i concetti di imparzialità e indipendenza sono cruciali e chiunque li tradisca tradisce la nostra professione. Sono convinto che per non tradire questi princìpi non sia necessario soltanto esserlo, imparziale e indipendente, ma occorre anche sembrarlo. Per essere estremamente sincero le vorrei dire che il problema non è se a un magistrato sia permesso di fare o no politica – per inciso, impedire a un magistrato di fare politica sarebbe incostituzionale, sarebbe come voler sottrarre a un cittadino un diritto garantito dalla Costituzione, quello dell’elettorato passivo – ma il problema vero è quali sono i meccanismi di entrata e quali quelli di uscita. Ci devono essere regole stringenti e chiare per avere accesso alle cariche pubbliche e alla pubblica amministrazione così come ci devono essere delle regole severe per permettere a un magistrato che smette di fare politica di tornare eventualmente a fare il suo mestiere. E vi dico di più”.
Prego, ci dica. “Vogliamo dire che una volta conclusa la parentesi politica il magistrato non deve tornare ad avere funzioni giurisdizionali? Va benissimo. Vogliamo dire che debbano passare un tot di anni prima di tornare a indossare una toga? Perfetto. Ma vogliamo anche dire che se la democrazia parlamentare deve essere specchio fedele di quello che è il paese è bene che in Parlamento ci siano anche alcuni magistrati?”. Cantone, glielo volevo chiedere io, ma praticamente me lo sta dicendo lei: si sta candidando? “Caro Cerasa, so che questa è una sua tesi, e la rispetto, ma non è la mia strada. Ho ancora cinque anni qui in Autorità e poi tornerò a fare quello che facevo prima. Ma questo non mi vieta di osservare in modo sincero quel che succede nel nostro paese, e per capire che ci sono – ma non mi faccia fare nomi – delle anomalie che vanno sanate”. Quindi mi vuole dire che anche le correnti della magistratura non sono un problema e non mettono in nessun modo a rischio il concetto di “indipendenza” e di “terzietà” di un magistrato, anche se quelle correnti hanno delle precise idee politiche che spesso vengono messe in campo contro questo o quel governo, alla facciazza di Montesquieu?
“Non amo le correnti, anche se ne faccio parte (mi sono iscritto a Movimento per la giustizia solo perché di quella corrente ai tempi faceva parte anche Giovanni Falcone), e oggi sarebbe facile sparare sul ruolo delle correnti, sul loro aver perso la propria vocazione originaria. Io, forse con malizia, dico che oggi le correnti della magistratura fanno più comodo a chi le contesta, per avere argomenti per criticare i magistrati, che a chi ne fa parte. Ma se mi concedete questa premessa io dico che il punto vero non sono le correnti in sé ma è chi usa le correnti per fare carriera, e chi permette che per fare carriera sia più importante una forma di appartenenza di una forma di merito”. Niente, a lei Montesquieu non piace, ho capito. “Mi piace, se intende la teoria della tripartizione dei poteri, e la necessaria distanza che debba avere il potere giudiziario da quello legislativo. Ma se ci pensa bene il pensiero di Montesquieu è figlio dell’illuminismo ed è figlio di un’idea in cui il giudice dovrebbe essere soltanto un matematico che applica la legge senza interpretarla e senza uscire dal tribunale. E quel modello, come le ho detto, non lo condivido fino in fondo”.
Dunque, mi verrebbe da dire, tutto lecito? In nome della separazione soft dei poteri i magistrati sono legittimati anche a occuparsi di cose di cui non si dovrebbero occupare? Possono parlare di tutto? Possono fare – come fa spesso l’Anm, mi scusi – politica senza essere politici? “Coglie un punto importante sul quale forse anche io devo fare autocritica. Non mi piacciono i magistrati che parlano di qualsiasi cosa per cercare di condizionare e determinare i processi legislativi e non mi piacciono i magistrati che si occupano di cose che non gli competono. Non parlo degli altri, parlo di me. Qualche giorno fa, ho visto che anche il Foglio mi ha criticato su questo punto, ho espresso delle valutazioni rispetto al ruolo di De Gennaro, subito dopo la sentenza della Corte europea. A ripensarci, ho commesso un errore, mi sono involontariamente inserito in uno spazio che non mi compete e sinceramente, oggi, pur pensando quello che ho detto, non lo ridirei più pubblicamente: ho fatto una stupidaggine”.
E alla Leopolda, invece, lei che sostiene che l’indipendenza della magistratura sia una questione non solo di sostanza ma anche di forma, ci riandrebbe? “Certo. Vado in tutti i posti, anche a forte intensità politica, dove mi è permesso di raccontare quello che faccio. E capisco che la Leopolda faccia notizia, ma lo scorso anno sono stato anche ad Atreju da Giorgia Meloni. Destra o sinistra, le giuro, per me non fa differenza, in questo”. Quindi tutto trasparente, nessuno scandalo. Ma se tutto è trasparente, ci dice per chi ha votato alle ultime elezioni? “Le posso dire che non ho mai votato alle primarie”. Cantone, le abbiamo chiesto un’altra cosa. “Va bene. Voto sempre. Non mi sottraggo. Voto per i partiti più diversi, ma non le posso dire per chi ho votato: lì andrei a creare problemi nella ‘forma’ dei miei comportamenti”. E ci dice se le hanno mai chiesto di fare politica? “Me l’hanno chiesto più volte, ma al contrario di quello che crede lei, direttore, non mi interessa fare politica, non so come dirglielo”. Mmmm. “So che lei pensa che andare in televisione e fare buoni ascolti, come qualche volta accade a me, potrebbe essere un segno di chi ricerca consenso ma le vorrei rivoltare il ragionamento e dirle che magari non sono io che cerco consenso ma è il paese che cerca qualcuno che sappia combattere la corruzione”. D’accordo. E il paese di cui parla è lo stesso che avrebbe creato quel “brutto clima” attorno ai magistrati che sarebbe alle origini, citiamo ancora Francesco Saverio Borrelli, della strage di qualche settimana fa al tribunale di Milano? “Il brutto clima non c’entra nulla. Ma proprio nulla. E inserire argomenti politici quando ci sono tragedie del genere mi sembra poco opportuno. E’ stato un atto che sarebbe potuto avvenire in qualsiasi angolo della città e che è avvenuto invece in tribunale. E se ci fosse un brutto clima contro i magistrati, cosa che non mi sembra, non vedo perché gli avvocati e gli imputati non potrebbero dire la stessa cosa, visto che l’omicida ha ucciso anche loro”.
[**Video_box_2**]Se non esiste un clima brutto nei confronti del magistrati non pensa allora che sia il momento giusto per risolvere due problemi grandi così che riguardano la nostra giustizia? Per dire: la separazione delle carriere, l’abuso delle intercettazioni? “Da dove vogliamo cominciare?”. Faccia lei. “Separazione delle carriere, ok. Io penso che separare le carriere possa avere l'effetto opposto a quello che si dice. Ovvero, rendere più autonomi i pm dai giudici. Se il problema è che i giudici non sono oggettivi nei confronti dei pm perché hanno confidenza con i pm potrei dire che conosco centinaia di casi in cui i giudici o i pm hanno confidenza e consuetudini con gli avvocati, ma il problema non mi sembra quello. Il punto vero è che, a mio modo di vedere, separare le carriere renderebbe autoreferenziale il pm e lo farebbe uscire dalla cultura della giurisdizione. Se invece mi dice che bisogna essere più incisivi nell'evitare che i magistrati passino dal ruolo di pm a quello di giudice come se nulla fosse, le dico che sono d'accordo. Si figuri che io, ai tempi del governo Prodi, ero d'accordo eccome, su questo punto, con la proposta di legge dell'ex ministro Mastella”. E il resto? “Per quanto riguarda le intercettazioni, più che generalizzare occorre concentrasi su quali sono le patologie legate a questo sistema prezioso per la giustizia e le patologie sono evidenti: oggi non esiste un’udienza filtro prima del dibattimento che permetta di selezionare le intercettazioni rilevanti da quelle irrilevanti e fino a che non si inserirà già nel corso della fase delle indagini preliminari un momento preciso in cui le parti si mettono d’accordo per individuare ciò che può essere utile per la difesa e ciò che può essere utile per l’accusa non se ne uscirà. Il sistema è banale, basta solo volerlo. Poi ovviamente dovrebbero essere anche i giornalisti a capire che ciò che non viene selezionato dalle parti non deve essere pubblicato: è e deve essere considerato semplicemente irrilevante”.
Da come parla, caro Cantone, sembra persino garantista. Lo sa però che l’Italia è piena di imprenditori convinti che lei utilizzi in modo non proprio garantista alcuni dei poteri concessi dalla sua Autorità? Imprenditori che le fanno notare che utilizzare in modo giustizialista l’Autorità anti corruzione alla lunga rischi di soffocare l’economia? “Ho letto la lettera che i costruttori romani dell’Acer mi hanno indirizzato sulle vostre pagine giovedì e vorrei chiarire un punto che mi sembra centrale. Si parla molto dell’articolo 32 del Decreto legge Madia, approvato lo scorso giugno; qualcuno sostiene che questo articolo possa dare all’Autorità la possibilità di scegliere un commissario che gestisca l’impresa nel caso quest’ultima sia oggetto di indagine. Non è così. L’Autorità non interviene, e non è mai intervenuta, sull’impresa ma interviene sull’appalto. Il commissario, che è bene ricordare viene nominato dal Prefetto competente per territorio, non è il commissario che deve guidare l’impresa, ma è il commissario che deve gestire l’appalto fino al completamento dell’opera. Eventualmente, l’Autorità ha il potere di chiedere all’azienda di cambiare governance; ma sono sempre i vertici dell’azienda a scegliere gli eventuali nuovi manager e, comunque, anche in questo caso, l’Anac non ha alcun potere di indirizzare le scelte di politica industriale.
Niente, Cantone, lei vuole piacere proprio a tutti. E’ diventato un politico ma forse non se ne rende conto. “Cerasa, la sua è una fissazione. Deve sapere però, se mi concede una battuta, che io sono un appassionato di Roma antica ma tra tutti i grandi dell’epoca le confesso che quello in cui mi identifico di più non è certo Giulio Cesare ma è Lucio Quinzio Cincinnato. Che, come è noto, non fece proprio una grandissima carriera politica. Grazie, a presto”.