Dimissioni & resurrezione
Chi scrive una lettera, chi sbatte una porta, chi va in televisione. Chi mostra una lacrima, chi forza un sorriso, chi lancia un urlo. Chi china lo sguardo, chi lo sguardo alza, chi medita vendetta. Chi cura l’orto, chi soffoca nel rancore, chi il rancore soffoca. Chi pensa al ritorno, chi sa che è un addio, chi si spegne nel ricordo. Infiniti sono i modi di dimettersi – perché dimettersi, spesso, è arte sottile: tra la voglia di andare e il desiderio di essere fermati, tra il consegnarsi all’assenza e la suggestione del rimpianto (ché sempre si spera di sentire, dentro la gloria calante che spinge alle dimissioni, come il risuonare di quella canzone che con virile acuto intona: “Torna, / ’sta casa aspetta a te. / Torna, / che smania ’e te vedè. / E torna, torna, torna…”. Ma spesso più nessuno chiama. Più nessuno rammenta. Più nessuno ricorda (nei periodi di dimissioni o di ombra, si scrisse, persino Aldo Moro contava lo scarso numero di biglietti di auguri natalizi giunti, a paragone con quelli dell’anno precedente). Essendo un’arte, le dimissioni sono pure un periglio – e infatti Andreotti suggeriva di non darle mai: “C’è sempre il rischio che le accettino”. Tra le ultime, quelle di Zdenek Zeman dal Cagliari e quelle di Letta Enrico dal Parlamento. Tra il Boemo e il Nipote, però, vedono i giornali (maliziosi? chissà) una sostanziale differenza: l’allenatore va perché ogni possibilità è esaurita (causa “scarsa disponibilità dei giocatori a seguirlo sia negli allenamenti che in campo… mi sento inutile…”), il politico va perché forse un giorno sa che tornerà. A Parigi – a Sciences-Po, Institut d’Etudes politiques de Paris: manco al Moulin Rouge, manco la possibilità di “un friccico ner core” – così il predecessore di Renzi andrà, novello Mazarino in terra di Francia, ora che a Fazio ha consegnato l’annuncio delle dimissioni che da settembre lo vedranno fuori dal Parlamento e Oltralpe. “Anvedi Parigi…”, come la Delia/Franca Valeri del capolavoro “Parigi o cara”, mormorerà forse Letta il dimissionario, dimissionario perlatro senza rimpianti a sentir lui, “qua è proprio Roma, nun è il caso de sbajasse!”, che dal cupo rintocchino di quella campanella col viso mesto consegnata al successore – smorfia mutata in maschera, il lungo silenzio dentro quella smorfia contenuto – mai più si è allontanato. Maschera perenne, ferita da sanare, ferita mai sanata – che il modo ancor offende. E c’era in quello guardo che evitava Renzi, e che pure per intero da Renzi era occupato, quasi la stessa curiosa domanda che Delia ad altri nel film pone: “Sì, te danno cento a te, che te credi Soraya?”.
Non confondersi nella scena dal successore per intera occupata – spiegano i giornali. Non essere laterale e residuo, come angioletto ai piedi della Madonna Sistina in trionfo. Dimissioni per andare, e soprattutto dimissioni per tornare, quelle che pongono almeno parziale fine ai tormenti del giovane Letta – lontano dagli occhi, lontano dal fegato, secondo saggezza popolare. Che poi la ruota politica gira, e forse, ah magari!, la lepre fiorentina dovrà magari cedere il passo alla tartaruga capitolina – ah, potersi riprende un dì quella campanella, ritornare dal lungo e dolente esilio come una volta ripparve Nino Manfredi in quel film di Dino Risi, “so’ tornato ricco e spietato come il conte di Montecristo”. Perché certo, ognuno assicura e molti credono, un giorno Enrico il Buono – ché Parigi val bene una messa, e magari un seminario a Sciences-Po, ma mica molto di più – tornerà. Non è uomo d’impeto, e d’impeto non sono le sue dimissioni – ponderate, valutate, studiate. E’ forse Letta “l’homme sensible, comme moi” hanno scritto, appunto come Diderot e il suo “esprit de l’escalier”, e così a un’offesa subita la replica efficace sua giunge quando è ormai già sulle scale: replica non immediata, perciò, ma pur sempre replica ci sarà. Sicuro.
Del resto, la storia politica italiana è piena di dimissioni. Fatta la tara sui ladroni, e onestamente fatta pure la tara su certe legioni di coglioni, ogni dimissione ha avuto la sua propria storia, segnata dalla personalità di chi le dava – e che a volte quella personalità per sempre segnava. (Discorso a parte meritano certe dimissioni di Andreotti, che al suo paradosso di non darle perché possono sempre accettarle, aggiunse il 26 febbraio del ’72 il paradosso di favorirle, così che le carte migliori restassero ancora nelle sue mani, perciò chiese a un senatore di uscire fuori dall’aula e per un voto si fece battere. Strategia, in realtà, mica dimissioni. “Il Divo Andreotti – ha scritto Marcello Sorgi sulla Stampa – così convinto della propria eternità da considerare le dimissioni una sorta di porta girevole”). Nella Dc, per esempio, quasi mai le dimissioni hanno significato la fine di una prestigiosa carriera – se si esclude, certo, il caso delle dimissioni di Giovanni Leone dal Quirinale, nel 1978, dopo la campagna di stampa dell’Espresso e della Cederna, ma c’è da pensare che è, il Quirinale, l’apice di tutto: e da lì sopra scesi, altro da scalare non c’è. Quando Andreotti e Zaccagnini salirono sul Colle per portargli il calice della resa, lui disse: “Grazie, guagliò, così ora potrò guardarmi i mondiali di calcio in santa pace” (quelli dell’Argentina). Andò in televisione, “italiani, avete avuto come presidente un uomo onesto”, lasciò il Quirinale senza alcuna cerimonia, si chiuse per sempre nel silenzio nella sua villa Le Rughe. Anni dopo, Marco Pannella gli chiese scusa.
Vero che altri capi dello Stato a caratura scudocrociata si dimisero, ma chi per ragioni di salute, come Antonio Segni, chi per propria volontà, come Cossiga il 28 aprile del ’92, al culmine della sua stagione da Picconatore. (Deve essere quell’impegnativo palazzo del Quirinale, pure, a stressare: settantamila mila metri quadrati, tremila finestre, duecentosettanta arazzi, duecentocinque orologi a pendolo, ventimila pezzi di argenteria…). Furono dimissioni piene di rabbia, quelle di Cossiga, dimissioni usate per mesi e mesi per accelerare l’adrenalina nelle vene della sua ormai esausta e detestata Dc, così che già mesi prima, a novembre, faceva impazzire la Conferenza nazionale del partito a Milano con un lancio della fidatissima Adnkronos: “Cossiga: ‘possibili dimissioni’ durante la conferenza Dc” – una studiatissima doccia scozzese, tra nessuna smentita e nessuna conferma, così da far ballare l’intero partito nell’incertezza. “Li terrò stretti tra l’annuncio delle dimissioni e l’annuncio della ricandidatura, gliene darò una calda e una fredda…”, gongolava il presidente. Cossiga fu perfetta rappresentazione di una convinzione di Mino Martinazzoli, l’ultimo segretario democristiano, anch’esso dimissionario (via fax, alla incolpevole Rosetta Jervolino, “lascio la politica, torno a fare l’avvocato a Brescia”), espressa al Corriere della Sera: “Nel rito Dc lasciare non è una resa”. Cossiga lasciò una prima volta nel maggio del ’78 – il cadavere sanguinante di Aldo Moro davanti ai suoi piedi di ministro dell’Interno. Quando Moro fu rapito, il 16 marzo, Cossiga scrisse due lettere di dimissioni: una nel caso in cui il presidente della Dc fosse stato salvato, l’altra nel caso in cui fosse stato ucciso, custodite nella cassaforte al Viminale del suo portavoce, Luigi Zanda. “Si considerava una persona politicamente morta”, disse Zanda. Disse Cossiga: “Per un anno mi sono svegliato di soprassalto dicendomi: l’ho ucciso io”. Raccontò Guido Bodrato: “Se ne fece una malattia”. Ne portò i segni nei capelli e sulla pelle, le macchie di quelle veglie notturne, il dimissionario Cossiga – ma lo stesso, in seguito, fu a capo di due governi, del Senato e dello Stato.
Si diceva di Martinazzoli, che col fax uscì di scena, nelle settimane del primo trionfo berlusconiano. (La Jervolino quasi non ci credeva, mentre stringeva il foglio tra le mani: “E’ stata una botta in testa, che grana che mi hanno dato… Che grana…”). Spiegò allora l’ultimo segretario democristiano: “Era la presa d’atto di una sconfitta elettorale. Avevo visto i risultati, percepito lo stato d’animo del partito. Non fu doloroso”. Si fece accompagnare da un pensiero di Mario Luzi, nel prendere congedo: “Ed ora – superano le cose il loro nome”. Ma non era un teorico delle dimissioni, Martinazzoli, pure se quelle che diede furono irrevocabili. “Un politico che immaginasse di fare politica a colpi di dimissioni farebbe meglio a cercarsi un altro mestiere. Vede, ci sono dimissioni e dimissioni, circostanze e circostanze”. E quelle che si trovò a vivere richiedevano il suo farsi ancora più laterale, dopo aver provato a salvare il salvabile della storia democratica cristiana col suo fragile Ppi. Però ricordava sorridendo ai cronisti ciò che a lui ricordava un vecchio, autorevole capo democristiano: “Per fare politica bisogna godere di buona salute, avere una moglie paziente e non dare mai le dimissioni”. Già nell’89, un’altra volta, Martinazzoli si era dimesso. Dal governo Andreotti. Insieme agli altri ministri della sinistra del partito, contro la legge Mammì. Tra di loro, anche Sergio Mattarella. “Riteniamo che porre la fiducia per violare una direttiva comunitaria sia, in linea di principio, inammissibile…”, disse il futuro capo dello Stato. Incrociò quella sera stessa il suo amico Martinazzoli. “Hai consegnato la lettera di dimissioni?”. “Certo, l’ho appena fatto”. “E hai fatto una fotocopia?”. “No, perché?”. “Perché Andreotti è capace di mangiarsela, la tua lettera, pur di farla scomparire”. Poi è tornato, Mattarella – con quella sua stranissima flemma (“In confronto a lui, Arnaldo Forlani è un movimentista”, sfotteva De Mita) che certo Letta deve avere in questi mesi studiato attentamente. Nonostante la derisione dei vincitori apparenti di allora dentro il partito – a un’assemblea nazionale lui dal palco citava l’Ecclesiaste, quelli nei corridoi a ridacchiare: “Aho, hai sentito, adesso la cosa più importante pare non rubare!”: ministro, e poi un’altra fuga; parlamentare, e poi un’altra fuga, il Colle infine – e quando il suo nome cominciò a salire c’era a Montecitorio chi ironizzava: “Se lei va in giro a domandare ai deputati chi è, le risponderanno: chi, il cugino dell’onorevole Mattarellum?”. Tra i dicì fu costretto alle dimissioni Vito Lattanzio, ministro della Difesa nel ’77 quando il nazista Kappler dal Celio se ne scappò ¬– dentro una valigia della consorte: un nazista nell’improbabile ruolo di Paperino. “Infine, capii che era meglio dimettersi”, rievocò anni dopo il diretto interessato. Che da un ministero, però, ne ebbe in cambio due: Trasporti e l’ormai dimenticata Marina Mercantile. Alzò le spalle e sospirò Giovanni Galloni, allora vicesegretario della Dc: “Talora il ridicolo è meglio del tragico”.
[**Video_box_2**]Però ecco, nella Dc si cadeva (non volentieri, ma succedeva), e poi si risorgeva. Ben più tragica, dolorosa, l’esperienza vissuta negli ultimi trent’anni a sinistra, dal Pci al Pd di oggi: un dimettersi come uno sparire per sempre, una scia di risentimenti, lettere segrete scritte ai compagni per manifestare un dolore e una rabbia che in pubblico bisognava trattenere: una coda velenosa giunta fino ad oggi. Si comincia nell’88. Era aprile, era a Gubbio. Alessandro Natta, successore di Enrico Berlinguer, si sente male prima di un comizio. Quasi un infarto. E’ in ospedale. Davanti alla sua stanza, accade qualcosa che il vecchio dirigente comunista non dimenticherà mai più. Scrive in quei giorni nei suoi diari: “L’ospedale è un po’ come il lager: la perdita di responsabilità, non hai più il potere id decidere di te stesso. Il priore dei francescani, quando conclude il mandato, torna ad essere un semplice frate”. Perciò, scrive pure ai suoi compagni, “torno umile frate”. Un passaggio di consegne che i due uomini forti del Pci di allora, Occhetto e D’Alema, spingevano per accelerare. E’ in una seconda lettera, rimasta segreta per anni e anni, l’essenza di ciò che Natta vide dal suo letto, e dolorosamente patì, mentre si avviava verso le dimissioni – “Compagni, non vi siete comportati lealmente. C’è stato un tramestio, davanti alla mia stanza di ospedale. Quello che avete fatto per me è stato offensivo, perché erano cose del tutto non necessarie. Alessandro Natta”. E così, Natta si dimise. Qualche anno dopo, qualcuno bussò a un’altra porta, stavolta di Occhetto. Era “un deputato di Gallipoli” – così lo chiamò: coi baffi, a nome Massimo. “Venne da me per dirmi che al congresso dovevo lasciare, perché non sapevo dirigere il partito, perché si era aperto un ciclo totalmente nuovo – roba da marziani!”. E spiegò allora, il successore di Natta: “Dicono che sono io il problema? Bene, mi faccio da parte, così non ci saranno più alibi per nessuno, adesso vedano loro quello che possono fare”. Anche Occhetto, come Natta, lasciò dietro di sé una lettera amara. “Due cartelle dattiloscritte piene di infelicità, amarezza, rancore e disprezzo” (così la cronaca della Stampa in quei giorni). Le sei righe finali, le più dolorose, dove il segretario dell’allora Quercia saluta gli altri, persino il terribile Berlusconi, e nessuno dei suoi compagni, solo amaro fiele per loro: “Ringrazio con particolare affetto il compagno Bertinotti per la correttezza politica e per la sensibilità umana; ringrazio anche il presidente del Consiglio, che si è rifiutato di intervenire nelle vicende interne del Pds; e ringrazio infine quanti hanno chiesto che io mi facessi da parte con l’argomento che ormai ero passato alla storia”. Il resto, fu consegnato a un libro: “I sentimenti e la ragione”. Scelse una citazine beffarda di Cesare Pavere – il dialogo tra la Nube e Issione – l’Occhetto costretto alle dimissioni: “La tua sorte è segnata: non si sollevano impunemente gli occhi a una dea”. “Nemmeno a quelli della Quercia, la signora delle cime?”.
Così D’Alema, antico deputato di Gallipoli, uno stesso tormento deve aver provato, quando lo spudorato Renzi lo ha forzatamente dimesso da tutto – sempre quella fatica di andare di lato, di lasciare la scena, di conoscere l’umiliazione dell’angolo. Si potesse fare come diceva Winston Churchill sarebbe più facile – “Ho dato le mie dimissioni, ma le ho rifiutate” – ma bisognerebbe essere Churchill, e molto difficile pare. O consolarsi nel modo di Pessoa: “All’uomo superiormente intelligente oggi non rimane altra via che l’abdicazione”, ma bisognerebbe essere superiormente intelligente, e ancor più difficile pare. Fa ressa tutto il resto delle dimissioni che affollano i giornali: quello perché diede del “rompicoglioni” a una vittima, il ministro che va ad annunciarle direttamente in televisione, quell’altro che si prepara alla galera, quello che cerca di parare un colpo più grande. Persino il Papa, si è dimesso – Benedetto sull’elicottero che va via, scivola su Roma. E poi cosa resta? Per esempio, la rubrica “Italians” di Beppe Severgnini. Ove gli scrivono per avere illuminazione: “Caro Severgnini, il giorno delle dimissioni del Papa sarà ricordato da ciascuno di noi per tutta la vita: tu dov’eri quando hai saputo la notizia?” – senti che curiosità. E Beppe, comprensivo: “Alle porte di Brescia, diretto verso il punto di partenza del mio viaggio politico-ferroviario da Trieste a Trapani. L’ho sentita alla radio, la notizia. Sono rimasto colpito, non sorpreso. Non chiedermi perché”. Non sia mai. Mai sia. Ma alle porte di Brescia, ogni illuminazione è possibile.