Economia, politica. Messaggi in bottiglia per il Cav.
La fusione fa la forza. Ci sono epoche storiche che parlano da sole, in cui l’economia viaggia sulla stessa lunghezza d’onda della politica, e questa è certamente una di quelle, è una di quelle epoche, è una di quelle fasi. Prendiamo prima i dati e poi passiamo alle conclusioni, al parallelismo con la politica, al senso di quello che sta succedendo non solo in Italia, o in Europa, ma nel resto del mondo. La fusione fa la forza, e come capita quando i soldi cominciano a circolare, quando le aziende si sono disintossicate, quando la ripresa magari non arriva ma un po’ si comincia ad annusare, succede che, guardandosi attorno, si decide di unire le forze per combattere il nanismo e stare al passo con i tempi.
Anche nel mondo dell’economia italiana i segnali sono evidenti, ormai da qualche mese, ormai da metà dello scorso anno, e c’è qualcosa di più dei casi già noti di oggi e di quelli che ci aspettano domani. C’è molto di più della cinese ChemChina che si compra Pirelli. C’è molto di più della fusione tra Yoox e Net-a-Porter. C’è molto di più della State Grid Corp of China che si compra le Reti della Cdop (al 35 per cento). C’è molto di più della Whirlpool che si prende Indesit. C’è molto di più della fusione tra Gtech e International Game Technology. E c’è molto di più, uscendo dai nostri confini, della Shell che si compra Bg, della Halliburton che corteggia BakerHughes, della Heinz che si accoppia con la Kraft, della Nokia che si annusa con Alcatel-Lucent, della Hg3 che si avvicina sempre di più a Wind, di Santander che studia come unirsi con Mps, della FedEx che lancia offerte da capogiro per comprare Tnt Express, della Ericsson che occhieggia a Huawei. C’è, insomma, un grande e progressivo rimescolamento dei super player dell’economia che si vede nelle acquisizioni più importanti che finiscono sui giornali (e a breve, si sa, partirà anche il grande risiko delle Popolari, con un grande polo che si andrà a formare tra le popolari lombarde e quelle venete) ma che si vede ancora meglio attraverso i numeri che ci offrono i mercati. E che ci dicono che nei primi tre mesi del 2015 in Italia sono state chiuse 140 operazioni per un valore di 9,8 miliardi (lo scorso anno furono un po’ meno, 103, ma per un valore leggermente superiore, 10,7 miliardi) e che ci dicono che, di riflesso, in giro per il mondo i numeri sono ancora più significativi.
Secondo MarketWatch, sito del gruppo Dow Jones, nei primi mesi di quest’anno sono stati raggiunti accordi di fusione e acquisizione per 802 miliardi di dollari a livello globale, oltre 100 miliardi in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso e da questo punto di vista il 2015 è l’inizio d’anno migliore dal 2007. Quando vennero registrate, sempre nei primi tre mesi, fusioni e acquisizioni per un totale di 978 miliardi. Il 2007, come si ricorderà, fu un anno molto particolare, per l’Italia e per il resto del mondo, e la spinta alle fusioni fu un fattore che coinvolse non soltanto l’economia (nel 2007 il valore dei merger arrivò a superare quota 100 miliardi) e non soltanto le banche (ricordate la grande fusione, per dirne una, tra due tra le più importanti banche italiane, come Banco di Napoli e Intesa?), ma coinvolse inevitabilmente anche la politica. Il 2007 fu l’anno della fusione tra i grandi partiti di centrosinistra (chiusero i battenti Ds e Margherita, nacque il Pd) e fu anche l’anno in cui sulla spinta di questo cambiamento Berlusconi salì (a novembre) sul predellino per fondare il Pdl.
E se è vero che il ritmo con cui anche in Italia si succedono fusioni su fusioni (vi dice nulla Mondadori e Rcs?) è anche vero che lo stesso tipo di dinamiche ha, di nuovo, una sua dimensione speculare nel mondo della politica. In Italia, si sa, la grande coalizione, in forme più o meno allargate, è un appuntamento fisso dal 2011 (Monti, Letta, Renzi). E nell’Europa delle grandi fusioni economiche le dinamiche sono simili, con il modello della grosse koalition (inteso, se vogliamo, come risposta di sistema dei partiti in difficoltà che si uniscono per combattere il nanismo e sopravvivere alla crisi della politica e della rappresentanza) che sembra destinato a non essere un fenomeno passeggero. L’Europa, come si sa, ha una Commissione presieduta da un politico (Jean-Claude Juncker) appoggiato dalle due grandi (e rivali) famiglie politiche europee: Pse e Ppe. In Inghilterra, Germania, Olanda, Belgio, Estonia, Repubblica Ceca, Austria e Romania ci sono governi che grosso modo possono essere definiti di grande coalizione (nel 2013, quando si insediò in Italia il governo Letta, le grandi coalizioni erano la maggioranza: su 28 paesi europei otto erano governati da partiti di sinistra, nove da partiti di destra e i restanti 11 da coalizioni tra le due forze). E al prossimo giro (si vota il 7 maggio) anche l’Inghilterra potrebbe avere una coalizione ancora più strana di quella che ha oggi (Tory e Lib-Dem).
[**Video_box_2**]Il momento dunque è questo, bisogna afferrarlo e considerarlo, e si capisce bene che le dinamiche della politica non possano che risentirne. Si può fischiettare? No. Da un lato, fronte Pd, le scissioni, la vocazione al nanismo, sono in tutti i sensi fuori dal mondo, roba da medioevo, considerando che a sinistra esiste un partito che riesce a essere il risultato accettabile di una fusione tra vecchi partiti. Dall’altro lato, fronte Berlusconi, il grande magma indistinto che erutterà alle prossime regionali, trasformandosi in mille rovinosi lapilli, nell’immediato potrà dare l’impressione di un centrodestra che non esiste più (e in parte è così). Ma nel futuro prossimo venturo è evidente che la direzione non può che essere quella timidamente messa a fuoco da Berlusconi qualche giorno fa, a proposito di fusioni: un grande Gop italiano, un grande partito repubblicano che sappia mettere insieme tutte le anime del centrodestra. Il Nazareno, in questo contesto, è evidente che sarebbe ancora nelle cose, che sarebbe quasi naturale, anche se non ci sarà più se non per qualche partita sulla quale è impossibile oggi non mettersi insieme (la Libia).
E se questa è l’era delle fusioni, dunque, chissà che allora quel codicillo che ci fa impazzire e che è previsto nella legge elettorale che verrà approvata da qui a una decina di giorni – il premio alla lista – nell’immediato potrebbe sì deprimere il centrodestra ma nel futuro potrebbe diventare un punto tecnico intorno al quale costruire la rinascita di un universo politico. Non con una coalizione variopinta, modello Unione (che non a caso si è estinta proprio nel 2007) ma con una efficace e formidabile fusione fredda. E se il 2015 sarà un buon anno come il 2007 in fondo lo capiremo partendo anche da qui.