Alternative invisibili
Si può solo immaginare, e di sicuro senza riuscirci davvero, lo sconcerto umano di chi per decenni ha goduto di una rendita di posizione intoccabile, sia mediatica che politica, difesa con meccanismi a volte persino settari (i famosi “compagni di scuola”), e oggi ha trovato qualcuno con più pelo sullo stomaco di lui; di una classe dirigente che a lungo ha sostenuto la propria insostituibilità in nome del primato dei “professionisti della politica” e oggi si scopre perdente ogni giorno, inesorabilmente, a quello stesso gioco di mestiere e maneggionismo politico che una volta padroneggiava; di chi per anni ha invitato provocatoriamente i cosiddetti giovani a “prendersi lo spazio, invece che chiederlo” e ora è confinato in un vicolo politico angusto e senza sbocco, e che peraltro si va restringendo settimana dopo settimana. E d’altra parte solo con il disorientamento umano si può spiegare la concatenazione di ingenuità ed errori politici che la vecchia guardia del Pd è riuscita a inanellare negli ultimi mesi. Per restare agli ultimi giorni, è stato un errore decidere di piantare la grana delle grane non sul Jobs Act, o sulle tasse, o sulla scuola, bensì sulla legge elettorale: e in realtà nemmeno tanto sulla legge elettorale bensì sulla decisione di approvarla attraverso la questione di fiducia, una cosa di cui davvero, ma davvero, non importa un fico secco a nessuna persona normale (si fa fatica persino a spiegargliela). È stato un errore di decidere di piantare questa grana delle grane – ma forse è un istinto, un riflesso pavloviano, e non una decisione, come insegnano gli anni di Berlusconi – ricorrendo al logoro e abusato topos del “regime” e della “democrazia in pericolo”. E’ stato un errore decidere di esporre quotidianamente in tv e sui giornali, invece che soffocarli e vergognarsene, il livore e il rancore che provano nei confronti dell’uomo che li ha democraticamente battuti ed estromessi dal potere, mostrando così che questa sconfitta è stata vissuta non come un normale passaggio politico, per quanto personalmente sgradevole, bensì come l’usurpazione di qualcosa che consideravano di loro proprietà.
Sono passate solo poche settimane da quando, con l’aria di chi ne ha viste tante e la sa lunghissima, Massimo D’Alema davanti ai parlamentari di minoranza del Pd – un gruppo politico diversissimo e frastagliatissimo che ha davvero in comune soltanto il desiderio di liberarsi di Matteo Renzi – invitava a opporsi al governo del proprio segretario con “intransigenza”, “non lanciando ultimatum ma assestando colpi, quando necessario, capaci di lasciare un segno”.
Oppositori nel taschino
Il primo di questi colpi sarebbe dovuto arrivare con l’elezione del presidente della Repubblica, ma Renzi trovò il modo di mettersi agilmente i suoi oppositori nel taschino. Il secondo di questi colpi doveva arrivare con la riforma elettorale: non affondandola – non potrebbero, neanche se volessero – ma ritardandone ancora una volta l’approvazione definitiva col vecchio mestiere di chi ha trascorso decenni tra aule parlamentari e commissioni, con una qualche trappoletta su questo o quell’emendamento, non importa nemmeno quale, ottenendo così l’ennesimo rinvio della legge al Senato e poi di nuovo riunioni della direzione nazionale, trattative, minacce, offerte e ultimatum; per poi votarla, forse, e ricominciare da capo dalla Camera, e intanto negare a Renzi un importante successo politico. Il presidente del Consiglio se li è messi di nuovo nel taschino, per giunta con un surplus di umiliazione: se nel caso di Mattarella la vecchia guardia del Pd poteva sostenere che era stato Renzi a piegarsi e “fare la cosa giusta”, sull’Italicum la spregiudicatezza della mossa fa bruciare la sconfitta ancora di più. Hanno voluto fare gli squali con Renzi e hanno scoperto che Renzi è più squalo di loro.
Dice: ma allora nel Pd bisogna rassegnarsi a diventare renziani, finché non passa la nottata? Cosa dovrebbe fare un dirigente politico che vorrebbe stare nel Pd ma rispettosamente costruire un’alternativa al suo segretario? Intanto costruirla, quell’alternativa: nessuno nell’attuale minoranza del Pd ci ha provato a parte forse il solo Civati, con mille limiti, e finché non ha cominciato a corteggiare Landini e fare conferenze stampa con Rosy Bindi. Ma poi soprattutto decidere di staccare il cordone ombelicale e rifiutare di farsi trascinare da chi, ferito e umiliato, sta combattendo disperatamente per riscattare l’orgoglio e ottenere un ultimo giro di giostra: sentimenti umani molto comprensibili ma che hanno poco a che fare con la politica. Vale per Roberto Speranza, se gli interessa avere un futuro politico anche fuori dall’ombra protettiva e paterna di Bersani; vale per Civati, se vuole fare la sinistra del Pd – nel Pd – senza diventare un simulacro di Fassina. La strada è strettissima: Orfini e i suoi ci stanno provando con qualche comprensibile fatica, e d’altra parte la storia di questi mesi dimostra che ci si brucia anche ad avvicinarsi troppo a Renzi (citofonare Alfano o Berlusconi). Ma non ce n’è un’altra, a parte quella che porta verso il fondo.