Berlusconi, un nuovo cominciamento
Berlusconi è nel punto più basso della sua parabola elettorale e nel punto più alto del suo percorso politico. I paradossi spiegano le cose. E’ noto. Solo un insipiente può credere che quel che resta del berlusconismo è il 4 per cento scarso di qui o di là, una Forza Italia in liquidazione coatta, una classe dirigente che non dirige, non inventa, non ha la calma e la sicurezza e l’intelligenza necessarie per affrontare le conseguenze di una sconfitta di partito e di coalizione, una vertiginosa perdita di credibilità. Del berlusconismo resta l’Italia com’è, da lui partorita, come dicono esorcisticamente i suoi arcinemici che gli imputano di averci rincoglioniti tutti. Questo le persone senza pregiudizi e senza troppi interessi personali o di gruppo da difendere lo sanno bene. Resta con e oltre Berlusconi un paese che ha praticato per la prima volta nella sua storia, anche quella del Regno non solo quella repubblicana, l’alternanza di forze diverse alla guida del governo secondo un mandato democratico. Resta un paese liberato dal monopolio di stato attraverso la tv commerciale e sradicato dalla sua vecchia cultura, non priva di meriti ma esaurita, della politica dei partiti. Resta un paese in cui idee e personalità contano più degli apparati. In cui un giovane Berlusconi di nome Matteo che parte da sinistra e pratica il progetto di una sinistra di riforma e di modernizzazione è in grado di competere da posizioni di comando democratico con le burocrazie irrancidite, i corpi intermedi immobilisti, i sindacati classisti o corporativi, i residuati postbellici delle ideologie nella forma di partitini alla cazzo di cane, i tromboni di un establishment goloso e avido ma non produttivo di politica né di economia reale in crescita.
Ho cercato di spiegarlo qui e altrove, senza alterigia e sapendo che posso sbagliarmi, ovviamente, ma Berlusconi è Renzi e Renzi è Berlusconi. C’è un’evidente eredità di linguaggio, di stile, di tenuta politica e di sfida istituzionale. Le riforme sono le stesse, con la differenza che da sinistra e con l’energia giovanile della rivoluzione generazionale, quelle riforme diventano possibili. L’ansia di crescita o di sviluppo, con i suoi squilibri e le sue possibilità per un paese ingaglioffito dalla pigrizia, è la stessa. La sensibilità al tema delle libertà, checché ne dicano i soloni della democratura, è la stessa. Si stava meglio quando si stava peggio? Quando il diritto al lavoro e allo studio mascherava con norme solidariste la perdita di valore del lavoro e dello studio? Quando un regime bloccato bloccava tutto, quando da un regime si passava a un altro regime? Si stava meglio quando eravamo una penosa anomalia iscritta nel registro della Conferenza di Yalta? Si stava meglio quando la scuola era in mano ai sindacati della scuola, la fabbrica alla Fiom invece che ai mercati, il Parlamento in mano alle corporazioni politiche chiuse? Si stava meglio senza una legge elettorale in grado di offrire governo e stabilità politica secondo le indicazioni dei cittadini?
Il dialogo tra Ezio Mauro e Zygmunt Bauman, su cui torneremo, è venato di malumore apocalittico. Ma antipolitica e populismi, anche con la grottesca sortita neolittoria che fa di noi una ridicola mostruosità, Lega nord più tricolore e saluto romano, e tutto egualmente falso, possono essere messi in rotta, nonostante la gufaggine congenita degli opinionisti e degli editori bancari. Si occupino di scontrini e di campi rom e di no euro e di no tav, cose in cui sono sfortunati maestri, e lascino il campo, perché c’è il campo della lealtà e della serietà responsabile, a una destra di governo antifiscale e liberista, a un’opposizione di governo, che può ripartire anche dal 4 o dal 2 per cento, a condizione che capisca che il tempo non sarà breve ma bisogna cominciare con spirito sereno e pionieristico, un ricominciamento. E perché no?
[**Video_box_2**]Berlusconi ha trasformato questo paese e ha rottamato la sinistra, prima che Renzi compisse il miracolo dell’eterogenesi dei fini e dei metodi. Solo una perniciosa tendenza autolesionista potrebbe consegnarlo adesso alla tristezza di un addio senza domani. Il domani non canta, ma segue l’oggi infallibilmente. Basta che le truppe del matto liberale arrivato dall’impresariato e dall’impresa, che ha per paradosso ricostruito il profilo di un paese potenzialmente moderno e aggressivo, dove il privato e l’individuo contano per sé, e lo stato può essere limitato e contenuto, non si facciano seppellire dai pregiudizi che le riguardano. Berlusconi non può tollerare che qualcosa di sensato gli succeda, dicono. Non può uscire dal cerchio dei pretoriani del momento, dicono. Non può fare grande politica, dicono. Deve oscillare tra rincorse dei grillismi e dei salvinismi, e risultare ovviamente meno credibile dei modelli. Non è vero. Con la lettera su Putin, salvo magari un elemento di riserva in più, che non avrebbe guastato, Berlusconi dimostra che la sua scala di priorità e di esperienza non ha niente a che vedere con le bestioline della scalata alla cloaca dell’antipolitica. Se ha fatto il miracolo di dare all’Italia un sistema politico maggioritario, un radicamento occidentale tenace, e di fare funzionare il “sistema di plastica” nonostante l’aggressione di magistraure e vecchie ideologie, farlo funzionare in coalizioni composte da masnadieri, può ripetere in nuove condizioni analogo sortilegio. Il 4 per cento non conta. Il voto di Berlusconi, posto che lo esprima sensatamente e si affidi a persone con la testa sulle spalle, non si conta: è come le azioni di Cuccia, si pesa.