#Nonsonocrocette. I test Invalsi misurano la scuola, così qualcuno ha fifa
Mamme che tengono a casa i bambini perché ci sarà “una tracciabilità nel tempo delle prove dei nostri figli”. Cobas in sciopero contro “lo strumento base su cui cammina la riforma”, dimenticando però che si fanno dal 2007. Prof che fanno “sciopero di mansione”, tuttora vanamente in dubbio se rientrino nei loro compiti di lavoro o no (risposta: sì). E ragazzini del biennio che scrivono sul foglio #nonsiamocrocette. La rivolta dei masanielli contro i test Invalsi è uno di quegli spettacoli che inducono inevitabilmente alla polemica, al corsivo. Ma poiché lo spazio è poco e i (mis)fatti si spiegano da sé, si dirà solo l’essenziale. Quelle pretestuose rivolte sono la fotografia di una società – che è la scuola, ma non solo – refrattaria al giudizio, alla valutazione. A concepirsi in termini di merito, di capacità di evoluzione e di miglioramento. Un sistema in cui gli elementi frenanti sono solidali l’uno con l’altro.
E’ più utile provare a spiegare perché i test Invalsi, buoni o cattivi che siano (c’è chi sostiene siano cattivi, e con argomenti non trascurabili di metodo e di merito), non sono inutili e vanno fatti. Come pure vanno fatti i test Pisa (Programme for international student assessment) – quelli sì dedicati a misurare gli studenti – lanciati nel 2000 dall’Ocse per valutare l’apprendimento in matematica, scienze e capacità di lettura dei ragazzi di 15 anni in tutto il mondo. Anche quelli vengono spesso contestati, forse perché (ancora nel 2012) il punteggio degli studenti italiani è stato di 485, sotto la media Ocse (494).
Il tema centrale è questo. La valutabilità, o meno, di un sistema nel suo complesso. Che si tratti dei risultati scolastici degli studenti (Pisa) o dell’efficacia didattica, come è lo scopo degli Invalsi. Creare concorrenza tra le scuole (e tra gli studenti) per molti è ancora un tabù, ma nessuno più nega che una scuola “che funziona” sia meglio di una abbandonata al caso, o a se stessa. E per avvicinarsi a un modello che funzioni c’è bisogno (anche, è il minimo) di standard di misurazione da cui partire. L’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione (un nome che uccide di burocrazia, e vorrà dire qualcosa) è da sempre criticato, con i suoi test, soprattutto perché i risultati non avrebbero efficacia comparativa: diverse le realtà sociali e geografiche, diversi i metodi di insegnamento. Luca Ricolfi, anni fa, fu uno dei primi a denunciare anche “la tenacia con cui gli insegnanti colludono con gli studenti”, dipendente dall’idea “che una ‘classe che va male’ segnali un ‘insegnante che non sa insegnare’”. Idea parente del senso di colpa per cui “se un ragazzo non ce la fa la colpa è innanzitutto della scuola, che non l’ha motivato, non l’ha sostenuto, non l’ha aiutato, non l’ha recuperato”. Da qui nascono tante posizioni banali, spesso dei sindacati, che chiedono di “non buttare soldi” con i test Invalsi e di spenderli per il recupero della dispersione scolastica, come se questo problema fosse un male di stagione, senza rapporto con quello che si fa o non si fa a scuola.
[**Video_box_2**]Si potrebbe, piuttosto, obiettare che le valutazioni a test non sono sufficienti, e anzi sono fuorvianti. Negli Usa c’è un forte dibattito sul Common Core, un sistema di test con lo scopo di offrire a livello federale un feedback sull’apprendimento, per poi orientare le performance verso uno standard unico. Un approccio secondo molti sbilanciato sul problem solving e su una eccessiva parcellizzazione del sapere, nonché limitativo della libertà di insegnare. Purtroppo in Italia siamo lontani anni luce dal poterci dedicare a questi dilemmi. Da noi c’è solo un sistema che si pretende ingiudicabile se non da se stesso (“l’autovalutazione” è un mostro che sta rientrando nella “Buona scuola”). Che rifiuta di sottoporsi a verifica per la paura di (far) scoprire che la scuola A nella regione B è diversa dalla C nella regione D. Quando l’ex ministro Carrozza suggerì di estendere alle università il test Invalsi, fu accusata di voler “imporre un particolare modello di scuola escludente, incapace di valorizzare le differenti intelligenze”. Spiegare che non è così, direbbe Dante, “è duro calle”.