Scissione breve
Sempre più spesso, al lettore di giornale distratto o meno attento dello specialista, capita in questi giorni di essere assalito da un dubbio: ma Pippo Civati, alla fine, se ne è proprio andato dal Pd, o è ancora lì a metà strada? E Stefano Fassina? Ma lo stesso gli capiterebbe se i suoi interessi si volgessero invece al centrodestra, nel qual caso si chiederebbe: che ne è più di Raffaele Fitto? E’ ancora dentro? E’ già fuori? E’ la politica al tempo del divorzio breve. Anche le scissioni, momento culminante del dramma politico novecentesco, si sono in qualche modo secolarizzate, laicizzate, burocratizzate. E alla fine dei conti, di fatto, anestetizzate. In altri tempi segnavano la storia e perfino la geografia, la topografia e la toponomastica. Dalla scissione di Livorno, la più celebre di tutte, alla scissione di Palazzo Barberini. Persino degli edifici che furono teatro di tali eventi è rimasta memoria. Tanto più quando erano teatri a tutti gli effetti, come a Livorno, con la storica sfilata dei delegati della frazione comunista che lasciano il congresso socialista per andare a fondare il proprio partito, passando “dal teatro Goldoni al San Marco”, come recitava il titolo dell’apposito capitolo nella storia del Partito comunista italiano di Paolo Spriano. Del luogo esatto in cui Gennaro Migliore abbia celebrato con le sue truppe l’addio a Sel, la fondazione di Led e infine la confluenza nel Pd, invece, non è rimasta traccia nella memoria nemmeno dei cronisti più scrupolosi, figuriamoci degli storici. E lo stesso si potrebbe dire della scissione che ha quasi azzerato la rappresentanza parlamentare di Scelta civica, portandola in dote al Pd.
E forse questa è la ragione per cui dei luoghi che furono teatro di simili rivolgimenti non è rimasta memoria: che il luogo, la città e persino il palazzo è sempre lo stesso, e cioè Palazzo Montecitorio, o tutt’al più Palazzo Madama. Ma non c’è bisogno di risalire tanto indietro nel tempo per avere un esempio del pathos e anche della brutalità che caratterizzavano un tempo le separazioni politiche. Basta paragonare il distratto “chi è Fitto?” del Silvio Berlusconi di oggi, peraltro così simile al celebre “Fassina chi?” dell’attuale presidente del Consiglio, al terribile “che fai, mi cacci?” con cui Gianfranco Fini avviò la traumatica e violentissima scissione del Pdl, quando il Pdl era al 37 per cento, governava tutto e sembrava destinato a farlo ancora per decenni.
Adesso, invece, è come se la dimensione tragica della politica fosse stata bandita anche da quest’ultimo, antico rituale, e persino l’atto estremo della spaccatura non trovasse più appiglio, niente su cui fare attrito, solo una liscia e scivolosissima cornice di indifferenza. Niente più processi ai reprobi, né clamorose messe all’indice, niente scenate in piazza, niente di niente. Come quei genitori che alle reiterate e sempre più rumorose birichinate del figlio oppongono uno stoico: lascialo fare, si stancherà. E così anche gli oppositori interni, quando si stancano, finiscono per andarsene quasi a bassa voce, senza nemmeno la soddisfazione di una scenata finale, senza un piatto o un bicchiere rotto, nemmeno dell’Ikea. Tanto che persino tra i famigliari rimane il dubbio se alla fine se ne siano andati sul serio, o se siano ancora lì dietro la porta chiusa, ad aspettare che li richiamino, e se ce l’abbiano davvero un altro partito che li aspetta a braccia aperte, o comunque un tetto dove andare a passare almeno la fine della legislatura. Mentre negli spettatori resta la solita pena per le vittime innocenti di ogni separazione, i militanti, e insieme la sensazione che una storia d’amore che finisce senza uno strillo probabilmente non era mai cominciata, e figuriamoci un partito.