C'è il merito sulla via dell'uguaglianza

Marco Valerio Lo Prete
Dici “valutazione”, quando si parla della Pubblica amministrazione italiana, e subito è tutto un inarcarsi di sopracciglia. Dici “sanzione” o “premio”, magari da lasciar comminare negli istituti scolastici da un Preside meno travicello di quello attuale, ed ecco che scatta l’opposizione alla “deriva autoritaria”.

Roma. Dici “valutazione”, quando si parla della Pubblica amministrazione italiana, e subito è tutto un inarcarsi di sopracciglia. Dici “sanzione” o “premio”, magari da lasciar comminare negli istituti scolastici da un Preside meno travicello di quello attuale, ed ecco che scatta l’opposizione alla “deriva autoritaria”. Dai licei alle università, la resistenza a tutto ciò che abbia un sapore “meritocratico” è animata dagli stessi che ça va sans dire s’intestano la rappresentanza dei “più deboli”, allievi o insegnanti che siano. In America, funziona all’opposto. E se “meritocrazia” in Italia è diventata parola inflazionata, negli Stati Uniti questo rischio non si corre. Perché oltreoceano chi chiede di valutare in maniera attenta i giovani e i loro professori – e quindi di premiare/sanzionare entrambi in base alle loro capacità – preferisce parlare di “uguaglianza”.  L’anno scorso la Corte suprema della California, nel caso Vergara vs. California, disse che i cittadini delle minoranze etniche erano i più gravemente danneggiati dall’inamovibilità degli insegnanti non meritevoli, perciò vade retro bardature corporative nelle scuole pubbliche. Sta accadendo di nuovo in queste ore, con una clamorosa denuncia di 64 associazioni asiatico-americane contro la prestigiosa Università di Harvard. La loro lettera, indirizzata al dipartimento per l’Educazione di Washington, denuncia la violazione del Quattordicesimo emendamento della Costituzione sulla “uguale protezione delle leggi”. Da due decenni – scrivono – i processi di selezione di Harvard discriminano i cittadini di origine asiatica in nome di una malintesa concezione dell’uguaglianza sociale, rafforzata dal principio dell’Affirmative action che spinge l’ateneo dell’Ivy League a privilegiare le domande di ammissione di ispanici e afroamericani.

 

Ora gli americani di origine asiatica, il 5,6 per cento della popolazione del paese, lanciano una sfida epocale – la prima da parte di una minoranza – al sistema nato per tutelare proprio le minoranze. Il ragionamento ha tre gambe. In primo luogo, il numero di application di cittadini di origine asiatica a Harvard è aumentato a dismisura (fino al 46 per cento di quelle di livello sufficiente per essere accettate). Inoltre il livello di preparazione degli ammessi asiatico-americani è più alto di quello dei colleghi afroamericani, ispanici o caucasici (lo dicono i punteggi dei test standard Sat). Eppure, terzo punto, la percentuale di ammessi di origine asiatica rimane attorno al 17 per cento da 10 anni; quella degli ispanici è salita al 13, gli afroamericani sono fermi all’11. Ingegneria sociale ed etnica ci covano, dicono le associazioni. Daniel Golden, premio Pulitzer del Wall Street Journal, paragona i concittadini di origine asiatica ai “nuovi ebrei”. Discriminati, ora però non pietiscono “quote etniche” pure per loro. Chiedono, in nome dell’“uguaglianza”, una selezione che tenga conto di performance accademica e reddito, “fondata principalmente sulla meritocrazia, uno dei valori fondanti che hanno reso l’America il più grande paese al mondo”.

 

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