Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio dopo la sconfitta del Movimento 5 stelle alle ultime elezioni europee, commentata solo da Grillo in un video sul blog

La “sostanziale tenuta” di chi perde

Stefano Di Michele
Dopo un voto c’è sempre una vittoria non avvenuta e una sconfitta che non si può riconoscere. Ecco tutte le parole da usare, quando sarà superata anche quest’ultima settimana elettorale.

“Ci sono poche situazioni meno incoraggianti di quella di un partito sconfitto”

Benjamin Disraeli

 

Sempre meglio tenersi pronti – l’urna, si sa, è traditrice, un po’ mamma e un po’ malafemmina: promette e non mantiene, giura ma poi cornifica, dice e al dunque si  defila. Così Matteo Renzi, sospeso tra il dubbio e la certezza, tra il volere e il potere, un po’ segue i sondaggi e un po’ si affida alla cabala: del sette a zero non parliano, per il sei a uno facciamo gli scongiuri, il cinque a due chissà, per il rachitico quattro e tre spargiamo voce: ché se tanto male va, possiamo sempre dire che quello ci aspettavamo; e se sopra siamo, le trombe del giubilo possiamo suonare. Silvio Berlusconi, un filo vintage ma di indubbia presa – ha pur sempre garbo e tenuta di un Carlo Dapporto – batte e ribatte su antiche certezze: i brogli di quelli a sinistra (ma pure Grillo, alle passate europee, per i suoi dispose di “vigilare in modo chiaro e controllabile sulle relazioni amicali e parentali degli scrutatori e presidenti di seggio”), il rischio del voto a ridosso del lungo ponte vacanziero, ché si sa come sono quei pelandroni dei moderati: gli scappa una giornata di sole e “tutti al mare, tutti al mare, a mostrar le chiappe chiare!” – e altre chiappe, con rispetto parlando, quelle sensibili e liberali, così esponendo al periglio. Del doman, e purtroppo manco del lunedì post elettorale, non v’è certezza – e a un leader politico tocca sempre tanto la faccia allegramente spiritata da campagna elettorale (forza, coraggio, siamo tanti, siamo forti, gli facciamo i bozzi!), quanto la pena di quella di circostanza. Come certi allenatori di gran nome ai raduni televisivi post partita, dopo averle prese dall’ultima in classifica.

 

Quando le parole sembrano mancare, quando la luce dei riflettori invece di glorificare acceca, quando la folla attorno anziché festevole mostra la voracità di chi presenta il conto. E’ il “miglio verde” di ogni carriera politica – da dove fortuna e capacità può far risorgere, ma dove spesso il destino ultimo si compie. E dove il leader qualche passo giù dal piedistallo deve per forza muovere – fosse per umiltà, fosse per convenienza. Come disse Gianfranco Fini nel lontanissimo 1999, quando con i suoi – in una transumanza alberghiera che dai sotterranei con neon del Jolly Hotel planò per l’ultimo atto nei saloni stucchi-fiori-sedioline dorate del Plaza – dopo la sfortunatissima esperienza elettorale dell’Elefantino: “La fase magica è finita, il Totem Fini non c’è più…”. Quella volta l’Idolo, con ingegno, davanti ai suoi (che nell’ombra mormoravano, mentre pubblicamente si dolevano: “Noi ti vogliamo bene, ma tu ci hai strapazzato…”, “Tu comunichi la tua freddezza al partito…”) si frantumò per meglio potersi ricomporre. Imploranti e perplessi i seguaci lo osservavano, incurante e distratto il capo se ne stava dietro il fumo di mille sigarette (si poteva, all’epoca si poteva). Li spedì a raccattar firme per chissà quali referendum, sulle sabbie roventi di luglio, quale contropartita per le sua benevola permanenza: “Oppure cercatevene un altro. Sarò libero o no di dimettermi? Di disporre della mia libertà?”. La libertà di un capo partito, al contrario del suo potere di pietra e metallo, è cosa fragile e insieme inafferrabile, pervasiva e sfuggente. Valga per tutto il tormento berlusconiano della ricerca dell’erede (evocato, più che davvero cercato), e la sconfortante certezza: “Questo qualcuno al momento non si è appalesato. Speriamo che si faccia vivo al più presto” – l’appalesamento come una sorta di “alzamiento” alle porte, quasi uno scrutare l’orizzonte col binocolo, dalla terrazza del Plebiscito al parco di Arcore, frenetico birdwatching nella speranza della visione dell’Araba fenice risolutrice. E il tardivo appalesarsi è, per paradosso e contrappasso, molto simile al totem finiano del suo antico alleato e poi per sempre avversario: apparente sottrarsi per meglio resistere.

 

Ma è soprattutto quando le cifre – rimossi i generosi ed esperti seppur vaghi sondaggisti – corrono definitive sugli schermi, e le sale si vuotano, e le facce dei giornalisti si fanno fameliche, che il momento difficile giunge. La notte elettorale, quando la febbre sale mentre la percentuale cala, o non abbastanza s’impenna, come prova suprema. Fu il caso di Bettino Craxi, quando l’epica dell’onda lunga socialista aveva ormai attraversato tutti gli anni Ottanta. Poi arrivò il ’92 – anno adesso da fiction televisiva, anno che ne preparava altri ben più dolenti. L’intervistatore Rai, davanti a quei numeri che parevano  preannunciare scricchiolii a via del Corso, comprensivo e non rassegnato, porgeva con cautela il microfono al torvo e scontento Craxi, sottolineando una rassicurante “tenuta socialista”. Bettino fu secco e impietoso e vero: “A me non pare proprio” – e la storia cambiò. Ci sono parole – tra una vittoria non avvenuta e un sconfitta che non sempre si può riconoscere – che servono a mitigare il dolore, a lenire la piaga, a illudere sull’entità del disastro. Le due più gettonate sono “sostanziale tenuta” – e ognuno a riconoscere che la loro origine è ascrivibile a nobiltà dorotea, essendo i dorotei, tra tutti i democristiani, maestri dello sfumare, dell’indefinire, del sopire. Ma le pronunciò anche Massimo D’Alema, quando Forza Italia fece mangiare la polvere elettorale alla novella Quercia, “sostanziale tenuta” (in altra occasione, in altra funesta elezione, più pragmaticamente scandì: “Sono un militante del Pci e non ho nulla da dichiarare”). Pure Dini, in analoghe occasioni. O Buttiglione. O Mastella. O democristianeria varia. Almeno “sostanziale tenuta”, se il miracolo elettorale non si è compiuto. Hanno suono rassicurante, quelle due parole. Sennò sfumare in “flessione”, meglio se “piccola”, barcamenarsi con “arretramento”, concedersi al massimo “un severo segnale da non sottovalutare”. Quasi sempre far seguire la mestizia di “nuova fase costituente”. Subito rammentare l’astensione traditrice, sollecitare apposita “riflessione”, assicurare sul “coraggio di cambiare”.

 

[**Video_box_2**]Ma attaccarsi alla “sostenziale tenuta” a volte proprio non si può. Nelle elezioni del 1983 – quando il Manifesto, a opera di Luigi Pintor, fece un titolo destinato a restare: “Non moriremo democristiani” – la Dc di Ciriaco De Mita, quella dei professori e degli esterni, dei innovatori scalpitanti (“Certi nuovi iscritti – diceva il perplesso Giulio Andreotti – vogliono insegnare il Credo agli Apostoli”). Tutto preannunciava il successo – fu disastro quasi epocale, crollo da brividi: meno 6,9 per cento al Senato, meno 5,4 per cento alla Camera, mai bastonata così, la candida Balena. Ecco De Mita che scende in sala stampa. Non è doroteo, non c’è nessuna “sostanziale tenuta” cui attaccarsi. “La sconfitta è innegabile, evidentemente la nostra politica non è stata capita dagli elettori, oppure è stata inadeguata”. Poi, la frase capace di rivelare per intero lo sconforto: “Sono attonito, non so cosa dire”. Indimenticabile pure la presa di posizione di Fausto Bertinotti, quando l’elettorato nel 2008 affondò con impeto la Sinistra arcobaleno (che tra l’altro ebbe la bella pensata di aspettare i risultati all’Hard Rock Cafè). “E’ finita male, in tutti i modi”. Si fece da parte. Esortò alla “fase costituente”, qualunque cosa significasse. “La mia vicenda di direzione politica termina qui, purtroppo con una sconfitta”. Poi, forse memore dei versi bellissimi di “Itaca” di Kavafis, sempre richiamati, Bertinotti prese congedo: “Ciò che va salvato, anche se da una sconfitta, è l’idea del viaggio…”. Pier Luigi Bersani, in frangenti complicati dal punto di vista elettorale, ha sempre mostrato felicissima inventiva. Come quando, dopo le ultime politiche, spiegò: “Non abbiamo vinto, anche se siamo arrivati primi”. O alle regionali del Lazio: “Come un palo al 90esimo minuto”. Del resto, nel 2008 Walter Veltroni, di fronte al trionfo berlusconiano, ammise: “Io non ho alcuna difficoltà a parlare di sconfitta”, ma “se guardiamo alla costruzione di una grande forza riformista, allora non si può proprio parlare di sconfitta: è stato un miracolo…”. Sconfitta più miracolo: miracoloso. D’Alema, in quella stessa occasione, si limitò a dire: “Il commento l’ha già fatto Veltroni”. Occhetto, per restare a sinistra, nella fatale notte delle europee del ’94, due mesi dopo la fatalissima notte del marzo del ’94. “La prima volta che nella storia del Pci-Pds il segretario si nega al commento elettorale”, notarono i cronisti. E certi giornali a riportare la sua certezza dei mesi passati, “tranquilli, compagni, vi porto tutti al governo e me ne vado alle Bahamas”. Un filo di dubbio: “Certo, perdere non è la stessa cosa che vincere”. Però.

 

Berlusconi, ogni volta che è successo ne ha fatto una malattia. I brogli, si è detto – nonostante la generosa semina, sempre annunciata, di vigilanti “apostoli della libertà”. I voti annullati. I moderati vacanzieri. Nel 2006, sconfitto dall’Unione di Prodi per appena 24 mila voti, mirò direttamente il suo ministro dell’Interno, il pacifico Beppe Pisanu – che evocò nella mirabile apparizione a casa sua, con tanto di bottiglia di champagne in mano. “Non evitò i brogli”: anni dopo ancora ne parlava. “Bugiardo incallito e alterato”, replicava Pisanu. (A massimo divertimento, per l’occasione Forza Italia, a urne chiuse aprì apposito sito web: “Operazione ricontiamo”). Conviene sempre, il buon viso pur di fronte al pessimo gioco. Pure se l’ardore va contenuto. Sandro Bondi, di fronte al titolo del Corriere della Sera (“Berlusconi arretra”: persino benevolo, aveva perso oltre quattro milioni di voti), spiegò a “Porta a porta” al direttore Stefano Folli: “Sì, Forza Italia ha una piccola flessione. Forza Italia, però, non Berlusconi”. Poi, c’è la strategia che mira a focalizzare il risultato positivo, per quanto irrilevante, di fronte al disastro più generale. Epocale, nell’inabissarsi democristiano alle amministrative del ’93, l’on. Vito Napoli: “Certo, abbiamo perso Roma, Milano, Napoli, Venezia, Palermo… Ma ci sono anche segnali incoraggianti. Penso ai successi di Gerace, Pizzo Calabro, Praia a Mare…”. Un po’ come il socialdemocratico Filippo Caria (annotazione degna di “Anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano”, e infatti nel felicissimo volume adesso si ritrova), nei giorni gloriosi della Prima Repubblica: “Compagni, alle elezioni provinciali di Caserta il Psdi è passato da due a tre consiglieri: la socialdemocrazia avanza e conquista il mondo”. Nel ’97, Adolfo Urso, di An – pur di fronte ai trionfi della sinistra da Napoli a Roma a Venezia, temerariamente rilanciò: “Abbiamo liberato Macerata!”. Nella stessa occasione trovò motivo di consolazione, si lesse sul Corriere della Sera, l’allora buttiglioniano (ci furono pure essi) Maurizio Ronconi: “Gli elettori riconsegnano Valfabbrica al Polo, nonostante la presenza di una lista di disturbo. E con Valfabbrica anche Parrano e Attigliano”.

 

La sconfitta reca nell’immediato questo: la sala (una volta la sede del partito, ora anonimi stanzoni d’hotel) che si fa silenziosa, gli sguardi imbarazzanti, molti che si defilano, il leader che tarda a scendere, sottopancia che vagano in tondo come pesci rossi nella boccia, giornalisti che fiutano il sangue – “mo’ sentimo che cazzata dice!”. Sopire, troncare, troncare, sopire… Mica sempre facile. Aspettiamo gli exit poll (stiamo freschi). Aspettiamo le previsioni. Aspettiamo i primi dati reali. Il Viminale, che dice il Viminale? “Non mi servono compagni che mi sostengano quando ho ragione. Mi servono compagni che lo facciano quando ho torto”, auspicava Lord Melbourne. Mai succede. Attaccarsi allora alla “sostanziale tenuta”, pur se sostanziosa frana – e che l’Altissimo (almeno Lui, vista l’inaffidabilità del popolo elettore) mandi buona la prossima.