Il senso di Travaglio per la battaglia politica, da Di Pietro a Podemos
"Fottemos” (titolo editoriale Fatto, 27 maggio). Marco Travaglio ha un’anima divisa in due: una parte gioiosa, che tende verso il glorioso Bagaglino che fu (settore signora Leonida, si direbbe); e una più arcigna, severa, da profetismo avanzato, evocativo piuttosto dell’Ubertino da Casale del “Nome della rosa”: “Temete le ultime trombe, amici miei! Il prossimo verrà dal cielo… e poi verranno mille e mille scorpioni!” (tutti tra Camera e Senato appostati, col supporto, si capisce, dell’Italicum di recente approvazione). E come il furioso monaco, dalle pericolose tentazioni del mondo pure lui cerca di preservare le creature a sé e al cielo più care. Per esempio, come Ubertino a Guglielmo da Baskerville, sempre al fiero Di Pietro ripeteva: “Piangi sulle ferite di Nostro Signore! E soprattutto getta tutti i tuoi libri”, così da conservarne intatta purezza spirituale e politica. Ma quello niente, fu lotta vana – ma lo stesso dalla lotta l’Ubertino nostro non desiste. Piuttosto insiste. Adesso, con potenza di fuoco e dottrina e sacra ortodossia, è passato alla difesa di Podemos: giù le mani, villici nostrani, voi indegni crapuloni, dall’immacolato codino del Don Quijote iberico! Tu Salvini, e tu, l’altro Matteo, carico di peccati e vizi e patti e iniquità! Tu, Di Maio, tutto pettinato, “apprendi a mortificare il tuo intelletto!” e la tua chioma, abbandona a se stessa la peccaminosa spazzola! E tu, Paolo Ferrero, ora ignoto ma temibile, pur satollo di fiaschi su fiaschi! E tu Vendola, di cime di rape rivestito! Vade retro, ognuno! Penitenziagite! Penitenziagite! Non osate accostare la lordura vostra al candore del Pablo d’Oltrepirenei – e così come l’altro San Paolo rammentate e meditate, oh peccaminosi: “Se qualcuno non vuol lavorare non mangi”, e soprattutto se qualcuno non sa far politica non copi!
Politicamente, Ubertino Travaglio è insieme profeta d’ortodossia e di felicissima eresia. Va, prova, torna, s’avanza, incita, bacchetta. Scontento sempre, pacificato mai. Dove uno va, lui è già stato. Niente e nessuno pare placare la sua tormentata, quasi struggente, ansia di ricerca der mejo fico del bigonzo politico – a sua e a nostra edificazione. Votò repubblicano, essendo laico, e votò liberale, essendo di Einaudi estimatore. E democristiano pure votò, essendo peraltro estimatore di Scalfaro – così da consegnargli il suo consenso nel natio Piemonte. Essendo Ubertino Travaglio uomo che sperimenta, oltre che il sottile ricercatore dell’ideale politico che ognuno sa, all’affacciarsi della Seconda Repubblica a Mariotto Segni diede il suo consenso. Quindi fu d’uopo, subito appresso, votare Ulivo alla Camera e Lega al Senato, avendo Bossi sostenuto di vedere in Berlusconi “il mafioso di Arcore” – che quasi quasi festevole Apocalisse all’Ubertino di nostra colleganza parve d’intendere, “vidi salire dal mare una bestia che aveva dieci corna e sette teste” – e pure tre televisioni.
[**Video_box_2**]Di seguito, si poteva negare il buon intendimento di Di Pietro? Così, pure sul recente trattorista di Montenero quel cuore ardente e inquieto si posò – e votò. Già prima che Grillo mandasse i suoi “cittadini” a Roma, Ubertino Travaglio i cinquestelle aveva onorato a Torino, “se il candidato è Fassino non lo posso votare nemmeno sotto tortura”. Gli fu saggiamente risparmiata la ruota, lui felice risparmiò il dolente obbligo. Fu quando si appalesò l’ultimo voto, che il tormento di Ubertino riprese e l’animo suo tornò a dividersi: “Voto Ingroia e Grillo, gli unici che non hanno mai governato con B.”. Così disse, così fece. Ma adesso, oh Ubertino sì caro, Podemos forse andare a votar pure el Pippo?