Matteo Renzi arriva negli Stati Uniti durante il suo viaggio dello scorso aprile (foto LaPresse)

Modello Roosevelt

Gustavo Piga
Renzi per riformare l’Eurozona cita finalmente gli Stati Uniti. Ma c’è una trappola da evitare 

Il documento del governo Renzi (“Completare e rafforzare l’Eurozona”) anticipato sul Foglio potrebbe costituire un’ardita e positiva riapertura di credito alle tesi che un’altra Europa dell’euro è possibile. Come non gioire del fatto che il governo si concentri sul rischio, assolutamente rilevante, che “il picco del malcontento sociale potrebbe essere ancora davanti a noi”? Che chieda l’adozione di un sistema di politica fiscale simile a quello degli Stati Uniti, capace di rispondere immediatamente alle crisi? Che perori senza ambiguità la necessità di affrontare anche il tema del cambiamento del Trattato pur di procedere verso un sistema basato sulla “solidarietà” tra stati?

 

Eppure, a leggerlo più volte, intuisco che quel documento nasconda una trappola. Renzi, abbandonata – per una resistenza invincibile da parte dei tedeschi – la pretesa di uno schema di Eurobond capace di generare un trasferimento di risorse dai paesi dell’euro-nord a quelli dell’euro-sud in difficoltà, abbraccia ora la teoria di uno schema di sostegno centralizzato a livello europeo alla disoccupazione nei paesi più in difficoltà. Proposta che lascia perplessi dato che non si vede perché la Germania dovrebbe accettare uno schema che per il cittadino medio tedesco ha le stesse implicazioni di quelle dell’Eurobond, cioè la cessione di una quota del proprio reddito a un lontanissimo cittadino greco o italiano. Ma soprattutto una proposta che non garantirebbe maggiore occupazione e produzione “aggregata” in Europa, ma un mero aumento dei consumi in una parte del continente compensata dalla riduzione nell’altra.

 

[**Video_box_2**]L’unica proposta capace di generare un effetto positivo non “a somma zero” sarebbe stata quella di una politica fiscale fatta di maggiori investimenti pubblici e minori tasse da parte di tutti i paesi dell’Eurozona, più spinta in Germania e meno in Italia dove ci si potrebbe limitare a mantenere il deficit attorno al 3 per cento attuale di pil, invece di azzerarlo con quella austerità che secondo lo stesso documento renziano “per troppo tempo ha risuonato nel dibattito europeo”. Una proposta che richiede una modifica del Trattato che cancelli le stupide prescrizioni del Fiscal compact, che proprio il modello citato a riferimento, gli Stati Uniti, rifiuta di adottare al suo interno. Una proposta che avrebbe un potenziale di consenso germanico ben maggiore, visto che non richiederebbe ai cittadini tedeschi sacrifici economici a favore dei greci ma anzi, una riduzione delle tasse tedesche che potrebbero essere spese in vacanze in Grecia o in elettrodomestici italiani, scatenando un modello virtuoso di ripresa della domanda europea. Purtroppo la carta della modifica del Trattato in tema di politica fiscale Renzi la utilizza, ma per ben altra proposta: quella di un passaggio a una politica federale dal centro in cui la scelta di quanto tassare e spendere non rimarrebbe più nelle mani dei singoli governi nazionali ma in quelle di una autorità centrale, presumibilmente basata a Bruxelles. In fondo non è quello che hanno fatto anche gli Stati Uniti? No. Il potere, a Washington, è arrivato dopo quasi 150 anni di unione tra stati profondamente diversi (Alabama e Massachusetts?), gelosissimi delle proprie prerogative locali su tassazione e spesa. Stati che solo nel tempo, e addirittura dopo una guerra civile, si sono uniti, grazie al coraggio di un leader, Franklin D. Roosevelt, che proprio negli anni 30 ebbe la credibilità e il carisma per farsi autorizzare dagli stati ricchi a trasferire risorse a quelli più in difficoltà per essere spesi in opere o lavori pubblici. Così facendo sancì la nascita dello stato federale americano. Trasferire oggi, con stati europei ancora lontani culturalmente tra loro, la politica fiscale al centro, non farebbe che levare l’ultima arma di politica economica agli stati più in difficoltà come Grecia o  Italia, non ottenendo nulla indietro perché la politica a Bruxelles sarebbe ancor di più decisa dallo stato attualmente più forte, la Germania. No, cara Sirena Renzi, io mi lego all’albero, resisto alla tentazione del suo canto e proseguo nella mia battaglia per un’Europa dell’euro senza austerità che lei non vuole abbracciare, condannandoci al trionfo di quel malcontento sociale già così alto e che le sue scelte farebbero esplodere.

 

Gustavo Piga è professore di Economia all’Università Tor Vergata di Roma