Tesoro, mi si è ristretta la rottamazione
Le cose sono più semplici di come sembrano e anche alla luce dei risultati delle elezioni regionali non bisogna farsi incantare dai dettaglismi e bisogna guardare alla sostanza. E la sostanza, provando ad allargare l’obiettivo della nostra cinepresa, ci dice che Renzi, nel suo momento di massima difficoltà, con i pensionati furiosi, gli insegnanti incazzati, la luna di miele finita, le riforme fatte a strappi, la sinistra interna indemoniata, una mini scissione in corso, un Senato che non si controlla, una minoranza che non gli vota la fiducia e un partito governato semplicemente con un paio di messaggi a settimana su Whatsapp, vince nonostante tutto, e vince nonostante il suo Pd abbia perso lo smalto e la forza oggettiva che aveva lo scorso anno alle Europee. Questa è la sostanza delle cose e un minuto dopo il risultato delle regionali possiamo dire che le questioni che erano aperte fino a qualche giorno fa restano tali ancora oggi per il presidente del Consiglio: senza un accordo strategico, istituzionale e costituzionale su alcuni punti programmatici con Forza Italia, o con quel che sarà, il Partito della Nazione sarà costretto a galleggiare in Parlamento e non potrà che rimanere ostaggio di una sinistra interna che oggi sa che una scissione dal Pd non potrà mai essere un progetto vincente (ndannamos, Civati?) ma che vede ora nella opzione della separazione una carta sufficientemente forte e minacciosa per ridimensionare il progetto renziano. E come dimostra la Liguria, dove una sinistra kamikaze munita di cintura esplosiva ha scelto di uscire dal Pd facendo perdere il Pd, una sinistra divisa di fronte a un centrodestra unito può produrre un risultato chiaro: così sì che Podemos perdere.
Renzi dunque vince ma si ritrova con diversi problemi da affrontare e dovrà fare i conti con il fatto che non esiste una sola regione vinta in questi mesi dal suo partito che sia espressione diretta del Pd renziano e come avevamo scritto su questo giornale è un fatto che i governatori eletti in questa e nella precedente tornata elettorale abbiano tutte le caratteristiche per fare emergere con più forza una forte divisione tra il Partito della Nazione e il Partito della Regione. Catiuscia Marini, eletta in Umbria, è una non renziana (tendenza Orfini). Lo stesso vale per Enrico Rossi oggi (Toscana) e Mario Oliverio ieri (Calabria). Lo stesso vale per Michele Emiliano (Puglia), che un secondo dopo essere stato eletto, in perfetto stile Rosario Crocetta, ha proposto di allargare la sua giunta al Movimento 5 stelle (Gesù). Lo stesso, ancora, vale per Luca Ceriscioli (Marche), renziano della terza ora con un profilo simile a Stefano Bonaccini, renziano della terza ora ed ex bersaniano che appena qualche mese fa ha conquistato l’Emilia Romagna. E lo stesso, infine, vale anche per Vincenzo De Luca, un bacino al nostro eroe campano, che ha renzianamente asfaltato il suo principale avversario, la lista impresentabili guidata dalla capolista Rosy Bindi, un bacino anche a lei, ma che come tutti i governatori del nuovo granaio meridionale del Pd (tipetti su cui vale la pena tornare) è un irregolare che sta al Pd renziano più o meno quanto Raffaelle Fitto sta a David Cameron.
Ecco: se vale la pena spendere qualche parola su quel che queste elezioni vogliono dire per Matteo Renzi bisogna partire da qui. E bisogna rispondere a una domanda precisa, prima di arrivare a tutto il resto: che tipo di elezioni sono le regionali per giudicare una leadership come quella di Renzi? La verità è che ogni competizione regionale e comunale (il prossimo anno si replica a Torino, Milano, Genova, Napoli) risponde più a criteri locali che nazionali e non è certo questo il terreno su cui si può definire in modo veritiero se la leadership di Renzi funzioni ancora oppure no. Le regionali non sono elezioni paragonabili a quelle nazionali, sono elezioni in cui si misurano più i capricci e le virtù locali che quelle nazionali, e il risultato conta fino a un certo punto, da sempre, sia se le cose vanno bene sia se le cose vanno male. E dunque, per un verso o per un altro, non bisogna esagerare. Ma se c’è un dato che ci può portare a riflettere sul significato che queste elezioni hanno avuto per Renzi quel dato riguarda una tendenza sempre più chiara che riguarda qui sì la leadership espressa dal presidente del Consiglio. E su questo punto non si può essere sereni. Renzi può piacere o no, ma in questi mesi a Palazzo Chigi ha dimostrato di avere un’idea precisa di governo – un’idea che a volte funziona e a volte non funziona, ma che esiste e ha una sua direzione precisa.
Il renzismo governativo lo si riconosce a distanza, è una forma estrema di populismo riformista che tende a deideologizzare alcune questioni cruciali facendo propri temi tradizionalmente considerati di proprietà dei propri avversari, e da un certo punto di vista è una piattaforma che ha prodotto anche una classe dirigente che riflette ciò che è il profilo del presidente del Consiglio: da Maria Elena Boschi a Marianna Madia passando per Luca Lotti e Graziano Delrio, e così via. Se questa specificità esiste a livello governativo, e ha ottenuto anche qualche risultato, a livello amministrativo si può dire che il renzismo non solo è molto debole ma, al di là dei risultati, al momento ha fallito, non è pervenuto, è inesistente, ha lasciato bloccato sui binari della Leopolda il treno della rottamazione e la fatica registrata in Umbria, così come la sconfitta della Liguria, così come il flop del Veneto così come la proliferazione di candidature irregolari e in alcuni casi persino anti renziane sul territorio, è indice di un trend importante, e pericoloso, che ci porta a dire che se Renzi non si occuperà del partito sarà il partito prima o poi a occuparsi di Renzi (e saranno legnate). Se c’è dunque un segno specifico che si può cogliere da queste elezioni, per Renzi, il segno è questo.
Bisogna portare la rottamazione fuori da Palazzo Chigi, adesso, e una volta messa la testa su questa questione, più che ragionare sui pallottolieri del Senato o della Camera (yawn), il compito che ha il presidente del Consiglio è quello di sfruttare il patrimonio di consenso del suo Pd (che è ancora forte, nonostante tutto) per lavorare bene sul terreno economico e affondare gli artigli su alcune questioni irrisolte e lasciate a metà (riforma della giustizia, taglio delle tasse, revisione della spesa pubblica, liberalizzazioni, riforma della pubblica amministrazione) che serviranno al capo del governo per rendere la propria leadership più distinguibile e avere dei temi forti sui quali misurare la propria leadership tra due o tre anni quando si andrà a votare o anche prima se ci dovessero essere incidenti di percorso. Temi sui quali poter dire davvero, un giorno: chi non sta dalla mia parte sta contro il rinnovamento dell’Italia. Questo dicono dunque le elezioni per Renzi. E a voler guardare infine più la sostanza che i dettagli si possono dire anche altre due cose sulle regionali. Si può dire che quello che tutti identificano come il “vero vincitore” di queste elezioni, Beppe Grillo, grasse risate, è in realtà il vero sconfitto, o quasi, perché ancora una volta, a urne chiuse e risultati sommati, il bottino raccolto dal Movimento 5 stelle corrisponde sempre a quella cifra lì: nessuna regione conquistata, nessun candidato vincente, una sostanziale tenuta numerica rispetto alle ultime elezioni ma, alla fine, sempre lì siamo: zeru tituli.
[**Video_box_2**]Infine, ovviamente, si può dire qualcosa anche del magnifico Silvio Berlusconi, che ha ottenuto due mezzi miracoli, in Liguria vincendo (ma grazie a un regalo del centrosinistra) e in Umbria lottando (ma grazie soprattutto a una candidatura debole del centrosinistra), ma che non può non essere consapevole del fatto che il suo partito non esiste più, che in Puglia arriva persino dietro a Fitto, che in Liguria, in Umbria e in Toscana è superato dalla Lega e che se le cose stanno così in mancanza di alternative (ma cercarle, no?) l’unico leader che potrebbe mettere insieme i cocci di centrodestra oggi rischia di essere Matteo Salvini (e come volevasi dimostrare, per Forza Italia avvicinarsi alla Lega non ha contribuito a far aumentare i consensi di Forza Italia ma ha contribuito solo a portare voti al suo alleato). Il centrodestra è riuscito, grazie a Zaia e Toti, a mettere un po’ di fard sulle proprie rughe ma il messaggio che oggi si può cogliere è comunque evidente: il centrodestra è in sofferenza cronica ma messo tutto insieme rappresenta ancora grosso modo la seconda forza del paese, e il caso Veneto e il caso Liguria e anche il caso Umbria, per quello che contano, dimostrano che, nonostante Renzi e nonostante Grillo, in Italia c’è ancora voglia di votare a destra. E a patto di non scambiare la vittoria di Toti in Liguria come la vittoria di Angela Merkel in Germania lo spazio per ricominciare volendo c’è. Sapendo che la chiave di tutto, per sfruttare la tentazione irresistibile della sinistra, quella del Podemos perdere, è che da Fitto a Toti passando per Salvini e Meloni e per Alfano e Casini tocca stringersi, fare uno sforzo, respirare forte e immaginare che un domani, per evitare di iscriversi preventivamente al partito dei Perdemos, comunque andranno le cose tocca stare insieme.