Corruzione e fallimento di Mani pulite

Claudio Cerasa
La via giudiziaria alla legalità non basta e non funziona. La chiave giusta per prevenire mazzette e cravattari riguarda il funzionamento del mercato più che il codice penale. Per tutto il resto ci sono gli scoop sulle caldarroste.

A forza di fare i giornali con lo spirito di chi deve riempire le pagine del proprio quotidiano con la certezza unica di non aver lasciato per strada un solo stralcio di una qualsiasi intercettazione contenuta in una qualsiasi pagina di un qualsiasi fascicolo giudiziario si perdono spesso di vista i problemi veri e si finisce per ripetere a pappagallo quello che ci viene offerto ora dai magistrati ora dagli osservatori mainstream. La cantilena la conoscete tutti. Oddio, c’è la mafia a Roma. Oddio, la corruzione dilaga, la politica è compromessa, non si salva nessuno, il più pulito ha la rogna e l’Italia – si dice citando sempre una qualche affidabilissima ricerca internazionale – è ormai messa peggio del Botswana. Anche questa volta, di fronte all’inchiesta su Mafia Capitale, la reazione pigra è sempre la stessa. E di fronte a un paio di cravattari che tirano su due spicci in combutta con un paio di consiglieri comunali di terza categoria si osserva con intensità il dito dimenticandosi della luna indicata dal dito. E dunque, via, tutti insieme, sempre citando il Botswana: so’ tutti ladri, aho, anvedi come rubano, guarda come magnano, sta a vede’ che mo’ viene giù tutto, ’a regggione, er comune, e pure er cupolone. Hai visto? Avemo una città in mano ai caldarrostari.

 

Chi si occupa però del dito, riempiendo di morbose intercettazioni le pagine dei propri giornali, ancora una volta dimentica di affrontare un punto che se proprio bisogna parlare dell’inchiesta cravattari & capitale ci sembra un filo più interessante della storia della mafia da quattro soldi. E quel tema, quel punto, è presto detto: ma perché in un paese come l’Italia, che ha offerto ai magistrati poteri straordinari per combattere tanto l’illegalità quanto l’immoralità la corruzione, dopo vent’anni di grandi e clamorose battaglie combattute dalle procure fuori e dentro le aule del tribunale non si riesce a estirpare la corruzione? E perché, insomma, come ha detto bene sabato scorso il presidente dei giovani industriali Marco Gay, “la via giudiziaria alla legalità non è riuscita a restituirci un paese che funziona come vorremmo?”. I pigri che pensano che fare informazione significhi utilizzare i giornali come buca delle lettere delle procure risponderebbero che ’a politica è ’na schifezz’, so’ tutti corrotti, fanno tutti vomitare, il più pulito c’ha la rogna, e dunque meglio il Botswana. A voler però affrontare il tema alzando anche di poco lo sguardo sopra il pelo dell’acqua si può dire che, senza allontanarsi troppo da Roma, le inchieste piccole e grandi che riguardano la corruzione ci offrono non solo uno spaccato di una politica corrotta (ovvio che c’è) ma ci offrono anche uno spaccato di istituzioni che in questi anni hanno scambiato la lotta alla corruzione per una battaglia meritevole di essere combattuta solo con la lente distorta del codice penale. Scemenze. Er problema, come direbbe il saggio, è più complesso e riguarda l’humus sul quale matura la corruzione –  la mucca da mungere, come direbbe Salvatore Buzzi. E il punto è proprio qui: la mucca esiste, eccome se esiste, e il fatto che sia così gonfia e facilmente vulnerabile è un problema persino più interessante della caccia ai corrotti e ai corruttori.

 

Nel caso di Buzzi e Carminati il tema è chiaro ed è ovvio che in un sistema come quello del comune di Roma in cui la politica (vedi alla voce municipalizzate) ha il predominio sull’economia esistono meno anticorpi per evitare gli sprechi e per razionalizzare le risorse pubbliche. E non è certo un segreto dire che in un sistema competitivo che tratta il denaro come una risorsa preziosa e non come una paghetta della mamma combattere gli sprechi risulta essere un modo come un altro per tenere a debita distanza le mani della criminalità. E non lo diciamo noi. Lo dice, con parole definitive, un gustoso studio della Banca d’Italia firmato nel 2014 da De Angelis, De Blasio e Rizzica, “The effects of EU funding on corruption”, che sostiene quanto segue.

 

Scrivono gli economisti di Bankitalia: “La corruzione, associata allo stanziamento di fondi strutturali europei, è stata minore nei comuni con amministrazioni particolarmente efficienti nella produzione di beni e servizi e in quelli in cui è più alta la partecipazione dei cittadini alla vita politica e più intenso il controllo sugli amministratori locali”. Da questo punto di vista, senza voler generalizzare ma volendo fare un discorso più generale, in Italia l’intreccio tra comuni e municipalizzate è spesso uno specchio sufficientemente fedele di un mondo dove la corruzione può proliferare: il 97 per cento degli 8.058 comuni italiani detiene quote del capitale sociale di una o più imprese e come ricordato lo scorso anno dall’ex commissario alla spesa pubblica Carlo Cottarelli “la banca dati del dipartimento del Tesoro del ministero dell’Economia ha censito 7.726 partecipate locali al 31 dicembre 2012, anche se non si conosce il numero esatto delle partecipate perché non tutte le amministrazioni locali forniscono le informazioni richieste e perché le banche dati esistenti si fermano ad un certo livello di partecipazione…”. C’è questo tema, ovviamente, ma se in Italia la corruzione è un fenomeno che non si riesce a sradicare, e se la via giudiziaria alla legalità non è riuscita a restituirci un paese che funziona come vorremmo, non è solo per la mucca che ha molto latte da offrire ma è anche perché è innegabile che esista una parte del paese che qualche volta vede nella corruzione una via alternativa al malfunzionamento dello stato.

 

E’ un’esagerazione? Un elemento utile a completare la nostra riflessione è offerto da un intervento interessante fatto alla fine del 2014 dal presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato Giovanni Pitruzzella che da un certo punto di vista spiega meglio di un’intercettazione ambientale quel che non si dice e si dovrebbe dire di fronte alle notizie su inchieste come quella di Mafia Capitale. “In Italia, le cause della dilagante corruzione possono essere individuate sostanzialmente nell’ipertrofia della burocrazia, nell’eccesso e complicazione delle regole e nel basso livello di diffusione della cultura della legalità soprattutto nel mondo degli affari… L’eccesso di oneri e di controlli per l’avvio e l’esercizio di un’attività d’impresa facilita l’emersione e la diffusione di condotte illegali poiché riconosce ai burocrati un ampio potere nei confronti dell’impresa, la quale per accelerare il proprio ingresso sul mercato e/o rendere più agevole la propria operatività sarà maggiormente propensa a sperimentare la via della corruzione… Effetti analoghi produce la complicazione normativa, che spesso è causa dell’eccesso di oneri burocratici. In ordinamenti in cui le regole sono poche, chiare e piuttosto stabili nel tempo sono tendenzialmente minori gli spazi per comportamenti illeciti, mentre maggiore è lo sviluppo economico. Regole poco chiare e stratificazioni normative che rendono difficile l’individuazione della norma concretamente applicabile aumentano, di contro, la discrezionalità creando un terreno fertile per il proliferare di comportamenti elusivi della legge e per l’aumento delle occasioni di corruzione”.

 

[**Video_box_2**]Ricapitoliamo: eccesso di potere offerto a municipalizzate spesso fuori mercato, passaggi burocratici deliranti, politiche insufficienti per promuovere la concorrenza, spreco folle di denaro pubblico e convinzione diffusa che sia sufficiente un Di Pietro, un Borrelli, un Cantone o un’alleanza con i cinque stelle per combattere l’illegalità ed estirpare per quanto possibile la corruzione. Tutte ragioni per cui la via giudiziaria – come ha detto sabato scorso ancora Marco Gay con parole che sottoscriviamo – “non è riuscita a cancellare le varianti che fanno salire a dismisura i costi degli appalti, né i miliardi programmati e non spesi, non ha razionalizzato la spesa sanitaria o posto fine alle nomine politiche nelle Asl, né abbattuto il costo e il numero delle partecipate locali. La via giudiziaria alle Mani pulite ha distrutto qualche partito, ma ne ha creato qualche altro. Ha fatto fallire qualche azienda e cambiato qualche consiglio di amministrazione, ma alla fine non siamo stati capaci, una volta conclusa, di dare vita a un nuovo corpo sociale e a un nuovo modo di intendere il rapporto fra impresa, istituzioni e politica”. Questo è il punto. E ora mi raccomando sotto con le caldaroste di Buzzi e Carminati.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.