Matteo Renzi (foto LaPresse)

Renzi e quel viaggio in Israele per non schiacciarsi sull'Iran

Mario Sechi
L’agenda del viaggio in anteprima, gli incontri, le occasioni da non perdere. Renzi sarà il primo leader G7 a parlare in Israele dopo la firma dell’accordo tra Iran e Stati Uniti. Allungare il braccio per una stretta di mano non basterà, dovrà essere capace di mostrare un pugno.

Roma. L’agenda c’è, il timing è perfetto. Dopo l’accordo tra Iran e Stati Uniti, con uno scenario mediorientale destinato a mutare di fronte alla nascita – de iure e de facto – di una potenza nucleare islamica nell’area, Matteo Renzi andrà in visita di stato in Israele il 21 e 22 luglio. Si stanno mettendo a punto i dettagli del viaggio, le diplomazie sono al lavoro, gli sherpa discutono gli interventi, ma il più è fatto.

 

Dopo la visita di Netanyahu in Italia nel dicembre dell’anno scorso, in occasione dell’incontro a Roma con il segretario di stato americano John Kerry, per Renzi sarà la seconda occasione per un faccia a faccia con i premier israeliano e stavolta con il sottofondo di una turbina nucleare che gira e un dibattito infuocato negli Stati Uniti su un accordo che Obama ha festeggiato, i repubblicani hanno sbeffeggiato e i democrati accolto con più di una perplessità.

 

Al tavolo di quell’accordo, c’era un’italiana, Federica Mogherini, che Renzi ha imposto come sua scelta per la carica di autorità della politica estera europea. Dunque, in qualche modo, il sigillo sull’atomo di Teheran è anche “renziano” e sarà interessante vedere come il premier italiano gestirà la visita sul piano della comunicazione.

 

Da parte di Israele non c’è alcuna diffidenza o riserva sul fatto che Renzi sia un alleato, anzi. Al premier italiano sarà data un’occasione importante, riservata ai leader che Israele considera “amici” sinceri: un suo discorso di fronte alla Knesset, il parlamento monocamerale di Israele. Sarà preceduto da un incontro con i capigruppo dei partiti con lo speaker del parlamento Yuli-Yoel Edelstein. Il primo italiano a parlare alla Knesset fu Carlo Azeglio Ciampi, l’ultimo è stato Silvio Berlusconi nel 2010 e il Cavaliere era – ed è tutt’ora – considerato un alleato d’acciaio dello stato ebraico, un uomo capace nei momenti che contano di pagare un prezzo per l’amicizia con Israele. Berlusconi cinque anni fa pronunciò queste parole: “Questo parlamento rappresenta la più straordinaria vicenda del Novecento. Siete l’unico esempio di democrazia e libertà del Medio Oriente, se non l’unico esempio”. Un appoggio allo “Stato ebraico” che rappresentava una scelta precisa di politica estera. Cinque anni dopo, quel mondo sembra essersi eclissato, certamente è cambiato profondamente. Gli Stati Uniti hanno accelerato la politica del disimpegno nel Mediterraneo e anche in Medio Oriente ormai danno segni di ritirata, stanchezza e appannamento della visione. La presidenza di Barack Obama ha fatto riemergere dal gelo siberiano l’Orso Russo, guarda ai gasdotti dell’Ucraina, si volta verso il Pacifico e sembra non interessarsi a sufficienza dei serpenti che ondeggiano tra le dune del deserto. L’Italia è in una posizione delicata, ma ricca di occasioni: alleata storica degli Stati Uniti, dialogante con le teocrazie islamiche, può a Israele una sponda sulla quale contare per il risiko futuro. Quale? La conservazione dello “Stato ebraico”, la riapertura dei negoziati di pace con i palestinesi, senza condizioni, senza ostacoli. Niente boicottaggi. Due popoli, due Stati, ma con un “paese ebraico”. E un messaggio all’Iran: la storia non cambia solo per l’Occidente, ma anche per voi.

 

Renzi ha 48 ore per lasciare il segno. Il pomeriggio del 21 luglio, appena sbarcato all’aeroporto di Tel Aviv, Renzi farà il suo primo intervento in un incontro dedicato all’economia e all’innovazione. Tema importante per Palazzo Chigi, ma soprattutto per Israele che punta sugli investimenti nel settore tecnologico ormai da parecchi anni e con ottimi risultati. Il giorno dopo, a mezzogiorno, l’intervento in Parlamento, il discorso del premier italiano alla Knesset, un appuntamento che gli eventi caricano di significato: Renzi sarà il primo leader del G7 a parlare in Israele dopo la firma dell’accordo tra Iran e Stati Uniti sul nucleare. Ci saranno le strette di mano con il premier Netanyahu, con il presidente israeliano Reuven Rivlin, con il leader del partito laburista Yitzhak "Bougie" Herzog e gli altri esponenti dei partiti ma, alla fine del giro di giostra, ciò che conterà sarà il discorso di Renzi alla Knesset.

 

L’Italia in realtà non ha ancora deciso da che parte stare. Si saluta l’accordo, si sorvola sui problemi geostrategici che comunque aprirà un Iran atomico. Tipico della diplomazia della Farnesina. Il prototipo di linea politica delle feluche – e della politica, naturalmente – sarebbe quello dell’equidistanza. Cioè dell’irrilevanza. Automatica. E’ una tattica che funziona quando c’è calma piatta e i missili stanno a cuccia nei silos. Non è il caso di oggi. L’Iran con le sue milizie, direttamente o indirettamente, è in guerra in Iraq, in Siria, in Yemen, in Egitto, in Libano. E non combattono per partecipare, ma per vincere oggi e comandare domani. E’ la legge della guerra, il tavolo della vittoria è di chi ha piegato il nemico. I sunniti non hanno l’atomica e si sentono schiacciati. E reagiranno aggrappandosi ai gruppi più sanguinari, a Isis e al Qaeda, con i governi anti-Teheran che saranno spinte a finanziare e appoggiare ancor di più le loro sanguinarie imprese.  L’equilibrio instabile è diventato un’egemonia regionale che ha il sigillo dell’atomo. E le conseguenze sono imprevedibili. L’accordo sul nucleare – buono o cattivo – innesca un movimento di pezzi sulla scacchiera dell’area, non tutti sono prevedibili, non tutti sono neutri, senza impatto. In questo schema di gioco, un pezzo in movimento vale solo se ha una linea precisa d’azione, non indistinta. La neutralità funziona per la Svizzera, non per un paese come l’Italia che si allunga nel Mediterraneo, guarda alla Libia, ha soldati in missione in Libano e punta, almeno a parole, a diventare una forza che plasma il Mediterraneo e ne diventa baricentro politico e militare. Per questo da Renzi molti a Gerusalemme si attendono una visione del futuro, una presa di posizione non sfumata, un impegno nei confronti di Israele, della libertà e dell’Occidente. E’ vero che Stati Uniti e Iran hanno firmato un accordo che viene dipinto come il preludio della pace, è vero che il premier Rohuani è di ben altra pasta rispetto ad Ahmadinejad, è vero che il ministro degli esteri Mohammad Javad Zarif è un raffinatissimo negoziatore, ma è anche vero che l’Iran è un paese in eterna transizione, dove c’è l’ex presidente Akbar Hashemi Rafsanjani che ancora qualche giorno fa ha ribadito un concetto non proprio rassicurante: “Israele verrà presto cancellato dalla carta geografica”. Una dichiarazione così pacifista, nel momento in cui l’Iran arricchisce l’uranio – e con una una storia di instabilità politica ad alto voltaggio – forse merita il commento fermo di un leader europeo. Renzi in Israele ha l’occasione per fare lo statista: allungherà il braccio per la stretta di mano, ma dovrà essere capace di mostrare il pugno.

 

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