La trappola della fiducia in cui si cacciano le nostre democrazie
Con la crisi economico-finanziaria iniziata nel 2008, le democrazie occidentali hanno apparentemente perso molte delle frecce al proprio arco nella capacità di fronteggiare le dinamiche globali. Europa e Stati Uniti appaiono da anni politicamente ed economicamente ridimensionati, mentre l’autoritaria Cina ha continuato a crescere con a ruota paesi asiatici e sudamericani. Dal 2008 sono stati numerosi i vertici internazionali in cui il mondo democratico occidentale è sembrato privo di risposte, incapace di correggere un euro traballante o di far fronte all’avanzata dell’islam fondamentalista. In questo scenario, sarebbe sbagliato sottovalutare il ruolo della democrazia. Infatti, di fronte alla calamità economica e politica la democrazia stessa sembra zoppicare vistosamente. Se a Pechino o a Mosca vogliono prendere una qualsiasi decisione economica o di politica internazionale possono imporre un diktat istantaneo, senza la necessità di costruire il consenso popolare. Le democrazie liberali, al contrario, non possono vantare tale rapidità e la storia ha dimostrato che per lenire questa “incapacità decisionale” dei governi democraticamente eletti, a volte, come nel caso di Atene e di Roma nel 2011, è necessario correre ai ripari con governi tecnocratici, con la speranza che potessero fare ciò di cui la politica tradizionale non era stata capace.
Tuttavia, questo sentimento di impotenza delle democrazie non è iniziato con la crisi del 2008. L’incapacità di rispondere rapidamente alle emergenze aveva già mostrato, nel grande calderone della storia, i propri limiti e le proprie sofferenze. Perché questo, in termini generali, sembra essere il grande affresco della democrazia: il trionfo delle scelte di breve termine e degli interessi costituiti. Si è iniziato così a guardare con interesse a quelle forme di governo autocratiche, in primis Cina e Singapore, in cui i governanti hanno le mani libere per fare ciò che si deve per far crescere il proprio paese. In questo dibattito s’inserisce un libro di David Runciman, professore di Politica all’università di Cambridge, intitolato “The Confidence Trap. A History of Democracy in Crisis from World War I to the Present” (Princeton University Press), da poco uscito con una nuova postfazione. Con una lucida analisi Runciman argomenta che le paure sulla fine della democrazia come sistema di governo efficiente risultano tutt’altro che sbagliate e, anzi, sono familiari. “The Confidence Trap” traccia un Ventesimo secolo costituito da episodi simili, in cui gli intellettuali, in ognuno di questi momenti di crisi, sono stati afflitti dal timore che la democrazia avesse raggiunto la fine della propria storia. Il docente dedica capitoli al 1918, 1933, 1947, 1962, 1974, 1989 e 2008 come anni decisivi per la vita delle democrazie, costruendo un modello storico che illustra ripetuti “sbalzi d’umore”, in cui il compiacimento per la supremazia e l’inevitabile trionfo della democrazia lasciano il posto alla denuncia dei suoi limiti e all’incapacità di affrontare le sfide del presente. Nel 1933 H.G. Wells aveva predetto che la democrazia sarebbe stata presto considerata come “un insieme troppo lento per risolvere le urgenti questioni politiche ed economiche, con uno scivolamento verso la rovina e la morte”. Un sentimento non così lontano da quello di Wells si trova in un rapporto pubblicato dalla Commissione Trilaterale nel 1975, in cui gli autori, preoccupati per il correre dell’inflazione, la stagnazione economica e lo scandalo Watergate intitolarono cupamente il rapporto “The Crisis of Democracy”.
Secondo Runciman, questo modello è esso stesso parte di un fenomeno più ampio. Le democrazie sviluppano fiducia nella loro capacità di recupero a lungo termine, una consapevolezza basata, in gran parte, sulla loro capacità di sapersi adattare a nuove esigenze, contrariamente alle autocrazie rigide. Questo ottimismo nel fatto che grazie alla democrazia, alla fine, tutte le tessere torneranno al proprio posto nel mosaico conduce le classi politiche ad abbassare la guardia, consentendo ai problemi di proliferare e alle scelte di essere rimandate, con la certezza che, nel momento in cui conta davvero, gli eletti dal popolo sapranno prendere le decisioni giuste. Questi problemi irrisolti e rimandati, come l’aumento incontrollato del debito pubblico, alla fine si manifestano esplodendo in gravi crisi. Tuttavia, è la tesi del docente di Cambridge, di fronte a queste crisi le democrazie di solito si adattano in maniera appena sufficiente per sopravvivere. La fiducia ritorna, si trasforma in compiacimento e superficialità e così il ciclo ricomincia. Questa è la trappola della fiducia a cui la democrazia non può sfuggire.
Quella di Runciman è una teoria che l’autore esprime più volte attraverso il paradosso. “Ci sono un sacco di piccoli errori si combinano per produrre un successo duraturo”, scrive riferendosi al modo in cui la politica in una democrazia appare, grazie al pluralismo, costantemente scivolare dallo scandalo al disastro, e da questo alla crisi e viceversa. In ogni momento, la democrazia vive una tensione e una problematicità continue. Solo da una prospettiva storica è possibile comprendere che quei piccoli fallimenti erano un modo per la democrazia di rimanere in corsa. Così tanto il Watergate negli Stati Uniti quanto l’instabilità politica degli anni 70 in Europa occidentale, tormentata dal terrorismo e dalle agitazioni sindacali, sono serviti come “valvola di sfogo del malcontento” non disponibile, in quel momento, per le autocrazie dell’Europa orientale. La differenza tra regimi democratici e non risiede in questa divergente consuetudine: le prime si adattano, accomodano e assorbono il malcontento, le seconde no. Nel giro di quindici anni, i fragili regimi comunisti crolleranno, mentre le democrazie, che così ansiosamente avevano profetizzato la propria caduta, riusciranno a sopravvivere alla fine della Guerra fredda.
Convinti che il proprio regime politico saprà reagire al momento di scelte inevitabili, i leader democratici finiscono per navigare a vele spiegate verso la crisi. Una tendenza al fatalismo già sottolineata da Alexis de Tocqueville nel Diciannovesimo secolo. Runciman cita l’osservazione di Tocqueville sui primi traghettatori americani quando i passeggeri attraversavano i fiumi a bordo di navi fragili e pericolose. Perché i produttori non ne fornivano di migliori? Perché “la navigazione con il battello a vapore stava facendo progressi quotidiani”, a significare che anche si fossero usate barche migliori, queste sarebbero state obsolete in tempi brevissimi. La fiducia nel progresso, dunque, impediva ai traghettatori di prendere le misure necessarie per uno spostamento più sicuro in quel momento. Come era per la navigazione sui fiumi, così per la democrazia: rinviare problemi e decisioni sconvenienti, rimettendo al futuro la responsabilità di questi.