Giachetti, il renziano non moralisteggiante che Renzi vuole a tutti i costi a Roma
Roma. Sogno-incubo di una notte di mezza estate nelle stanze governative: che fare con Roma (per tacer della Sicilia)? Perché non si tratta soltanto di capire se e quando tornare a votare nella capitale, dove il sindaco Ignazio Marino prosegue in un cammino non proprio di trionfo. Né si tratta soltanto di decidere quanto tempo concedere, in quel di Palermo, al Rosario Crocetta piangente e renitente alle dimissioni da governatore dell’isola. Il punto vero è un altro: l’identikit. Chi mettere al posto di questo e al posto di quello. A chi affidare le istituzioni locali in bilico, anche per evitare recrudescenze di tsunami grillini incipienti. Chi lanciare (tra qualche tempo) come nome salvifico, d’esperienza ma non paludato, concedendo qualcosa a chi, dalla piazza, scandisce “legalità, legalità, legalità”, senza tuttavia incatenarsi ai moralismi pre e post-intercettazioni che, seguiti pari-pari, possono portare il Pd rottamatore a rottamarsi da solo nella linea politica garantista. Così, tra dubbi e tormenti, nel cuore dell’estate che ha già visto un caso De Luca, un caso Marino e un caso Crocetta, tutto materiale per denti anti-renziani, si studia come innestare il vecchio spirito della Leopolda (all’inizio anti-giustizialista) nello stanco corpaccione del Comune di Roma, fiaccato da inchieste, rivolte anti-immigrati, pedonalizzazioni e annunciate giravolte in nome della trasparenza. E proprio a Roma, non da oggi, ma con sempre maggiore insistenza, un nome corre tra Palazzo Chigi e il Campidoglio: quello di Roberto Giachetti, vicepresidente della Camera. Renziano combattente, ma pure renziano-non renziano nei modi, garantista per dna e anti-giustizialista per vocazione. Uno strano ibrido, Giachetti, fin dall’aspetto – maglioni a righe invece della camicia bianca modello-premier, occhiali da cultore di Wes Anderson al posto delle lenti professorale. Soprattutto, un renziano con storia per nulla renziana: ex radicale, ex verde, poi rutelliano, poi tra i padri della Margherita, infine tra i padri del Pd, ma per la sua strada. Giachetti è quello che nel 2007, agli albori dell’esperienza pd (allora veltroniana), si è messo a percorrere l’Italia non in camper, come farà poi Renzi ma, parole sue, “con uno splendido esemplare di Ducato Panorama interamente rivestito di slogan pd, gonfio come un otre di materiale informativo tra volantini, volantoni A3, manifesti di ogni dimensione, questionari, penne, gadgets, bottiglie d’acqua, computer, videocamere, borse, pacchetti di sigarette, cd e chi più ne ha ne metta”.
Che faceva, Giachetti, mentre il Pd neonato muoveva i primi passi chez-Walter, tra loft da inaugurare e facce famose e speranzose da arruolare? Giachetti, il Gianburrasca della causa “fusione di storie e tradizioni nel Partito democratico” (cioè in un partito che non fosse emanazione della storia comunista o di quella democristiana), si era messo allora in testa che “agli occhi dell’opinione pubblica, malgrado giornali e televisioni, la percezione della forza politica nascente non andasse oltre il limite di una formula, forse anche nuova e promettente, ma non in grado di suscitare reazioni entusiastiche da parte degli italiani”. Con il Ducato si era messo in marcia, Giachetti, per borghi e paesi dimenticati (c’è chi, tra i suoi seguaci, ancora ricorda le piazze vuote del Meridione, col caldo, alle tre del pomeriggio): un “on the road” per andare a scoprire, così disse, “le vite degli altri”, i cittadini sconosciuti ai Palazzi. Anche per questo animo “di strada” il vicepresidente della Camera è quello che nei dibattiti tv viene contrapposto dal Pd con successo ai Cinque Stelle, come si è visto in una serata “Bersaglio Mobile” (La7) controcorrente, durante il Festival di Sanremo, in cui Giachetti, in duello con Luigi Di Maio, ha detto con tono amichevole ai bastian contrario del Parlamento che “quando sei in un’opposizione è facile, basta dire sempre no. Se si sta in una maggioranza, ogni tanto devi votare cose con le quali non sarai d’accordo. E io ho fatto le mie battaglie”.
[**Video_box_2**]In virtù dei trascorsi pannelliani, Giachetti è quello sempre un passo più avanti delle prime linee governative sui cosiddetti “diritti” (compresi quelli dei detenuti) e sempre un passo più indietro rispetto ai neo-moralismi e giustizialismi (vedi i vari casi-intercettazioni). Ha sostenuto lo sciopero della fame del sottosegretario Ivan Scalfarotto per le unioni civili (“…la politica continua a scegliere di arretrare lasciando che il proprio compito sia svolto dalla magistratura”) e ha auspicato un dibattito sereno sulla legalizzazione della cannabis (“…il proibizionismo ha portato solo risultati fallimentari”). E però Giachetti è anche iper-legalitario, e si è imbarcato da solo, ai tempi del governo Letta, a fine 2013, in un lungo sciopero della fame per l’abolizione del Porcellum, al grido di “se non c’è la volontà di cambiare la legge metteteci la faccia e ditelo”. (I cronisti lo ricordano “emaciato ma sorridente” aggirarsi tra Transatlantico e studi televisivi nonostante i quindici e più giorni di digiuno integrale – a parte i soliti tre cappuccini). Ogni tanto si chiude in silenzio stampa. Ogni tanto esterna (“mi sembra che Letta sia ancora appeso a quella campanella che ha dovuto consegnare a Matteo Renzi…”). Poco diplomatico con la minoranza pd (a un certo punto, mesi fa, la invitò tutta “a uscire dal partito”), a Ignazio Marino Giachetti ha mandato a dire un giorno che era “persona onesta”, ma che la sua giunta doveva fare “un salto di qualità”. Nega di essere lui l’uomo del futuro per Roma, ma nella mezza estate romana c’è chi non ci crede.