Il presidente del Consiglio Matteo Renzi (foto LaPresse)

Cosa aspettarsi dopo lo schiaffo di Renzi alla Repubblica delle Serracchiani

Claudio Cerasa
Il presidente del Consiglio ha fatto quello che avrebbe dovuto fare già molto tempo fa: "Non siamo dei passacarte della procura di Trani”. Spartiacque culturale tra l’Italia social confusa dei professionisti della morale e l’Italia che sogna di non farsi seppellire dalle lezioncine dei Rodotà-tà-tà.

Una goduria. Matteo Renzi ha fatto quello che avrebbe dovuto fare già molto tempo fa, ieri: ha chiamato finalmente le cose con il loro nome, ha mandato a quel paese chi meritava di andare a quel paese, ha preso una posizione chiara sul caso del “salvataggio” del senatore Azzollini e ha preso a spallate, a strattonate, a calci nel sedere, la repubblica del moralismo, con tutti i suoi fenomenali giustizieri a cinque stelle, i suoi cronistelli a servizio delle procure, i suoi opinionisti che scambiano veline dei magistrati per pagine del Vangelo.

 

Renzi lo ha detto ieri alla fine di un lungo ragionamento ma lo ha detto con parole definitive, che segnano uno spartiacque culturale tra l’Italia social confusa dei professionisti della morale e l’Italia che sogna di non farsi seppellire dalle lezioncine dei Rodotà-tà-tà, dalle interviste delle teste di Casson (copyright Montanelli), dai cloni di Antonio Ingroia, dai cugini di Crocetta, dagli zii di Marino, dai magistrati che si trasformano in giornalisti e dai giornalisti che si trasformano in talebani del moralismo. Goduria assoluta: “Noi – ha detto ieri Renzi – non siamo dei passacarte della procura di Trani”. Non ci illudiamo, per carità. Sappiamo bene che dalle parole sarà difficile passare ai fatti. Sappiamo bene che i muscoli mostrati oggi da Renzi contro i passacartisti delle procure non avranno lo stesso tono quando si andrà a parlare di riforma delle intercettazioni, di riforma della giustizia penale, di peso delle correnti nella magistratura, di separazione delle carriere e di tutti gli altri temi che andrebbero affrontati per essere coerenti con quanto detto ieri dal presidente del Consiglio, per limitare la presenza della magistratura nella vita della politica e dare alla politica e allo stato di diritto gli antidoti giusti per combattere quel virus letale che si chiama supplenza della magistratura.

 

[**Video_box_2**]Sappiamo bene che Renzi stesso è lo stesso furbacchione che spesso si contraddice, quando si parla di giustizia, e che è Renzi stesso, per esempio, ad aver concentrato nelle mani di un magistrato, Raffaele Cantone, nuovo inimitabile ayatollah delle coscienze democratiche, un potere tale che non può che stonare con chi sostiene che la politica e la magistratura, evviva Montesquieu, debbano essere mondi separati, confinanti, anche comunicanti, ma non sovrapponibili. Sappiamo tutto questo. Ma non possiamo trattenerci dall’esultare per questo Renzi, molto fogliante, che nello scontro culturale di civiltà che esiste in Italia sulla giustizia sceglie, almeno oggi, da che parte stare, mettendo così in imbarazzo (la nostra solidarietà agli amici di Largo Fochetti, vedi editoriale a pagina tre) la sinistra social confusa della Repubblica delle Serracchiani, che da una vita prova a dimostrare, portando minorenni al Palasharp, firmando appelli su appelli, consumando le penne degli Zagrebelsky, dei Saviano e dei Di Matteo, che i progressisti hanno il diritto di non critica nei confronti della magistratura. Scriveva nel 1998 l’ex magistrato rosso Francesco Misiani: “La verità è che il nostro potere di supplenza rispetto all’esecutivo è andato a crescere nel tempo grazie anche all’appoggio della sinistra e del Pci in primo luogo: che su noi magistrati, o, almeno, su una parte di noi, aveva deciso di investire risorse e attenzione”. Saremmo ingenui se dicessimo che oggi la sinistra ha rottamato un suo tabù. Ma sarebbe da sciocchi non capire che per un giorno, nello scontro di civiltà, Renzi, mettendo in mutande la repubblica del moralismo, ha scelto da che parte stare. La parte che ha scelto, in un clima che potremmo definire da patto culturale del Nazareno, è quella giusta. E noi non ci illudiamo, ovvio, ma almeno oggi un pochino godiamo.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.