Galateo per la Ditta
L'unica scissione utile è quella che si minaccia ma non si realizza mai
“L’ultima volta che uno di loro mi ha chiesto consiglio, gli ho detto così: pensaci bene… e soprattutto assicurati che ci sia davvero un posto dove andare”. E Cesare Salvi pronuncia queste parole con tono martellato ma non privo d’intenzioni scherzose, lui che nel 2006, con Fabio Mussi e Gavino Angius, portò fuori dai Ds il famoso e glorioso “Correntone”, fu dunque corpo e anima dell’ultima grande scissione del cosmo postcomunista, evento già impossibile da paragonare alla svolta di Salerno, alla scissione di Bordiga, alla Bolognina di Occhetto, a uno qualsiasi degli eventi piccoli e grandi che avevano lacerato il comunismo, “ma un fatto che aveva comunque una sua logica politica. Anche se è andata male”, dice Salvi. Anzi “malissimo”: alle elezioni del 2008, alleati di Fausto Bertinotti, Mussi e Angius, Salvi e Spini, loro che erano stati ministri e capigruppo accanto a Veltroni e D’Alema, Prodi e Amato, sottosegretari e volti noti della tribuna parlamentare, non rientrarono più alla Camera, passando con la velocità della luce da 150 parlamentari a zero, così, nello spazio di una serata elettorale. “Sbagliammo tutto”, ricorda Salvi, con l’aria di chi, osservando oggi il giovane Roberto Speranza e Gianni Cuperlo, per non dire l’appasionato Stefano Fassina (che il Pd lo ha già mollato), quasi si riconosce allo specchio, forse con un brivido, chissà: “Il Pd è stato una fusione a freddo, la riforma del Senato non è un gran vedere, ma fuori dal Pd cosa c’è?”. E già a questo punto s’intravvedono concatenazioni agghiaccianti, miseria, squallore, disoccupazione, emarginazione. Lo stesso Angius, nel 2008, due anni dopo la débâcle scissionistra, ammise che “il Pd è quel che è, però è quel che c’è”.
Ma per Bindi e per D’Alema, per Davide Zoggia e per Nico Stumpo, per Alfredo D’Attorre e per Speranza, il sorriso ribaldo di Renzi è forse un coperchio sul vuoto, la cinerea perfezione del niente che si è impossesata di casa loro: mai contenti, mai tranquilli, sempre a volere qualche altra cosa, a rimpiangere un’altra situazione, un’altra camicetta, un’altra legge elettorale, un altro Ferragosto, un’altra riforma del Senato. “Eppure, datemi retta, la scissione non è una soluzione”, dice Silvano Moffa, ex deputato di An, uno degli uomini che, tra sofferenze e pentimenti, lacrime e strepiti, seguì la parabola che portò Gianfranco Fini a divorziare da Berlusconi “e che poi ci portò tutti fuori dal Parlamento”. E quello di Fini, dice Moffa, “è stato il più grande suicidio politico della storia recente. Così, quando sento parlare D’Alema, quasi m’inquieto, perché me lo ricorda: è come offuscato dallo stesso rancore che fermentava in Gianfranco. Nella politica, a volte, s’innescano psicodinamiche tremende, e in questi casi l’intelligenza è un’aggravante. Le scissioni non funzionano, datemi retta. Meglio combattere dall’interno, perché fuori gli spazi sono angusti. E una tribuna non te la regala nessuno”.
[**Video_box_2**]E allora, dice Salvi, basta essere astuti e sornioni, saper trattenere molte cose nel gozzo, non sbandare in curva, non fare colpi di testa, o, alle volte, anche colpi di follia, “perché magari uno la scissione non la cerca, ma poi va così avanti che la rende inevitabile”. E anche Salvi, come Moffa, evoca il profilo baffuto: “D’Alema forse vuole riprendersi il partito”, dice, “ma per inerzia il partito potrebbe finire con lo sfuggirgli dalle mani, e lui con il carambolarne fuori”. E insomma le scissioni di maggiore successo, sembrano dire tutti, sono quelle a cui si allude e che mai si realizzano, le uniche capaci di dare a minoranze anche molto ridotte una visibilità e un potere di condizionamento enormi. “Bersani, che è riflessivo e non vive di umori, lo sa”, dice Moffa. “Secondo me lui non se ne andrà mai, anche se è dura la vita alla corte di Renzi”. Ma l’ecatombe degli scissionisti sta lì, con i suoi terribili sacrifici umani, gli svaghi malinconici, crudeli e dissipati: un monito.