Controproposta sulle tasse
Credo che una politica di centrosinistra debba puntare a ridurre la pressione fiscale in modo determinante, fin da subito e per i prossimi anni. Bisogna farlo, cercando di favorire lo sviluppo e l’occupazione (garanzia di una stabilità nella ripresa dei consumi interni), ma senza intaccare l’equità del prelievo tra i diversi cittadini e senza creare i presupposti per una nuova esplosione del problema debito, condizione che farebbe tornare l’Italia per la terza volta, dopo il 1992 e il 2011, sull’orlo del burrone.
I nostri criteri sono progressività, autonomia impositiva, priorità ai redditi più bassi e al lavoro, lotta all’evasione. Si possono fare anche interventi molto forti, consistenti e rapidi per abbassare le imposte. Ce ne sono tutte le condizioni, purché non ci si illuda che possano essere finanziati solo dal taglio delle spese. E’ indispensabile fare un lavoro molto rigoroso di risparmio e di lotta agli sprechi, perché è giusto e perché questo lavoro potrà liberare risorse anche consistenti; ma non saranno tali da coprire per intero un abbassamento strutturale e forte della pressione fiscale. A meno che non si desideri cancellare anche quella parte di sanità, di assistenza e di formazione rimasteci, iniziativa da evitare e che sarebbe un errore drammatico. Basta guardare la realtà per rendersi conto che i fatti, in diversi paesi, contraddicono le teorie propugnate in proposito dalle destre.
Il recupero dell’evasione, oltre a fornire le risorse per procedere subito a riforme davvero storiche, segnerebbe inoltre la fine del cancro che, insieme alla corruzione, ha prodotto il debito pubblico che ci impedisce di camminare speditamente. Non farlo significherebbe non aggredire il tarlo che produce anche corruzione e disuguaglianza, e che impedisce all’Italia di essere tra le locomotive d’Europa. Non è un caso se l’evasione fiscale, insieme alla corruzione, è l’unica caratteristica che dal punto di vista economico ci fa gemelli della Grecia e ci rende diversi da Paesi come la Germania o come gli Usa.
Ciò che invece condividiamo con gli altri paesi sono alcuni problemi provocati dalla globalizzazione e dalla liberalizzazione delle economie, e cioè una lunga fase di concorrenza fiscale dannosa, di erosione delle basi imponibili, e di riduzione delle imposte sulle imprese e della componente fiscale del costo del lavoro. Con il prelievo che si è spostato sui consumi e sul patrimonio immobiliare, creando una sorta di nuova “ortodossia tributaria” basata su incerte basi scientifiche, ma su robuste necessità e convenienze. Anche a causa di questi fattori, è cresciuta la difficoltà dei bilanci pubblici, ed è fortemente peggiorata la distribuzione del carico fiscale creando malessere sociale e polemiche. Soprattutto sembra inaccettabile che le imprese multinazionali riescono spesso a sottrarsi quasi completamente alle imposte sui redditi sfruttando scientificamente la possibilità di elusione offerte dalle normative esistenti nei singoli paesi e dagli oltre 3000 trattati esistenti sulla doppia imposizione. Occorre quindi un forte impegno nelle sedi internazionali per risolvere un problema che sta diventando intollerabile e politicamente esplosivo. Da questo punto di vista è positivo il recente recupero in sede europea della proposta, già avanzata da Visco, della cosiddetta Common Consolidated Tax Base (CCCTB), discussa a lungo a livello comunitario, ma poi sospesa una volta diventata proposta di direttiva. Se adottata la proposta consentirebbe la eliminazione della possibilità di arbitraggi fiscali almeno tra le imprese europee. Di incerta positività è invece il fatto che l’elusione fiscale che è lo strumento attraverso cui Google, Amazon, Apple, ecc. riescono a non pagare imposte a livello planetario sia stata recentemente completamente depenalizzata nel nostro Paese.
Ma veniamo alle proposte. Penso che il primo passo (ricordiamoci tutti che della cosiddetta pressione fiscale fanno parte sia le imposte che i contributi previdenziali) dovrebbe essere quello di assicurare la prosecuzione degli sconti contributivi per i nuovi assunti, misura che sta producendo una spinta all’occupazione. Dobbiamo rinnovarli e, se possibile, stabilizzarli. Accanto allo sconto per favorire l’assunzione dei giovani, credo sia opportuno approntare da subito un articolato intervento per sostenere, per via fiscale, le imprese che desiderano investire: sgravi fiscali connessi a spese per ricerca e sviluppo, per investimenti in nuovi impianti, in innovazione di processo e di prodotto; sconti fiscali più forti e con una prospettiva di lungo periodo sugli utili aziendali reinvestiti nell’impresa, e sul territorio nazionale. Alcuni piccoli passi già sono stati fatti (la nuova Sabatini, l’irrobustimento dell’Ace). Credo che occorra fare molto di più, con un salto di qualità decisivo. Allo stesso tempo penso che sarebbe opportuno un intervento a favore dei cittadini più deboli, in difficoltà dopo una crisi così lunga e così dura. Occupazione, produzione, meno abbienti: questi credo che debbano essere i primi obiettivi. Ricordo in proposito che gli 80 euro, iniziativa che ritengo meritoria, non hanno portato giovamento né ai cosiddetti incapienti, né ai pensionati. Ma di questo parlerò a proposito di Irpef.
Si possono utilizzare risorse anche per ridurre le imposte sugli immobili, stante che l’edilizia è uno dei pilastri dell’economia italiana? Non solo si può, si deve. Ma non si capisce perché lo si debba fare per l’impiegato o l’artigiano con la casa di abitazione in periferia a Milano, Torino, Roma o Palermo allo stesso modo come per l’industriale con villa o per il grande avvocato d’affari con attico ai Parioli o in via Montenapoleone. Attenzione: non è solo una questione di equità, ma di efficacia. Vi sono diverse proposte su questo tema. In generale, si può dire che, insieme a una riforma del catasto che renda il sistema più efficiente (ma che non comporti sgradevoli e sbagliate sorprese), si può stabilire una sostanziale franchigia molto alta per la futura e unica local tax (Imu+Tasi), in modo da esentare la grandissima parte degli immobili e di prevedere una leggera progressione per i patrimoni immobiliari veramente consistenti. Dall’imponibile andrebbe detratto il mutuo ipotecario. Alle imprese dovrebbe essere assicurata la deducibilità del prelievo in sede di imposta sul reddito. Ma soprattutto andrebbero ridotte o addirittura abolite le imposte di registro, ipotecarie e catastali, che potrebbero anche essere trasformate in una modesta tassa fissa.
Se l’obiettivo, come dice il presidente del Consiglio, è giustamente quello di rimettere in moto l’edilizia, che è un settore decisivo per il rilancio dell’economia, chiedo: si aiuta più il settore delle costruzioni abolendo per tutti, anche per i milionari, Imu e tasi sulla prima casa o facendo un’operazione che, lasciando che i più abbienti paghino qualcosa, favorisca con quegli stessi risparmi anche le compravendite, semplificando e riducendo le retrograde imposte che gravano sulle transazioni immobiliari? Ai lettori la risposta.
Quanto a Ires e Irap, intanto bisogna ricordare qualche dato. Prima dell’Irap la sanità veniva finanziata solo dai contributi sanitari dei lavoratori. Per allargare la platea fu creata l’Irap, che però sostituitì ben sei altri prelievi: l’Ilor (con aliquota del 16,2 per cento); i contributi sanitari (con aliquota formale del 10,6 per cento sui salari); l’imposta patrimoniale (con aliquota dello 0,75 per cento sul capitale proprio, equivalente in realtà a un ulteriore prelievo sui profitti del 5-10 per cento); l’Iciap; la tassa sulla partita Iva; le tasse di concessione comunali. Al di là di questo pur significativo dato di contestualizzazione, si possono ridurre Irap e Ires? Certo, se vi sono le risorse per farlo sarebbe giusto intervenire. Ricordo per inciso che sono state ridotte nel 2007-2008 dal centrosinistra; dal governo Letta; dal governo Renzi. Ripeto tuttavia che, prima ancora di questo intervento, credo che sarebbe molto efficace una iniziativa selettiva con un irrobustimento degli sgravi fiscali destinati a favorire investimenti, innovazione, ricerca, occupazione.
Un discorso a parte merita la tassazione dei redditi di capitale (interessi, dividendi, guadagni di capitale, ecc.), che rimane disordinata e priva di un criterio logico unitario. Non è solo una questione di incidenza effettiva della imposizione, ma anche di coerenza ed equità del sistema fiscale. Penso in particolare anche al sistema di tassazione relativo ai fondi di previdenza integrativa, i quali possono svolgere una funzione essenziale nell’economia nazionale, ma hanno subito interventi non sempre di sostegno come meriterebbero.
Quanto all’Irpef, è un’imposta che necessita di interventi sostanziali: la presenza di detrazioni decrescenti diverse per i lavoratori dipendenti, autonomi e pensionati, fa sì che le aliquote marginali effettive risultino più elevate di quelle formali, penalizzando in modo particolare i lavoratori dipendenti con carichi di famiglia: oggi infatti le aliquote marginali effettive superano il 41 per cento fin da livelli contenuti di reddito (28.000 euro lordi), mentre l’introduzione del bonus Renzi, ovviamente positiva per alcuni milioni di lavoratori che l’hanno ottenuto, ha prodotto uno scalino per il quale l’aliquota marginale effettiva del prelievo aumenta improvvisamente del 64 per cento, in corrispondenza dei passaggi da 24-26.000 euro di redditi. L’imposta andrebbe quindi profondamente rivista riportando a coincidenza aliquote marginali formali ed effettive, anche per mettere i contribuenti in grado di capire facilmente quale sia l’entità del prelievo che li riguarda, riducendo l’incidenza complessiva del prelievo fiscale e contributivo in modo da ridurre ulteriormente il cuneo fiscale. Infine, ma non in ordine di importanza sarebbe bene introdurre un nuovo strumento universalistico di sostegno a tutti i nuclei familiari in relazione al bisogno, anche in assenza di figli minori, riformando anche le attuali detrazioni per carichi di famiglia. Secondo alcune proposte già presentate si potrebbero far uscire dalla trappola della povertà almeno un milione di persone.
Il costo complessivo di una riforma dell’Irpef, di un diverso intervento sugli immobili, attaccando anche il tema delle imposte che gravano sulle compravendite e delle altre iniziative relative a occupazione e imprese non potrebbe essere leggero. Lo segnala lo stesso progetto presentato da Matteo Renzi (circa 50 miliardi di euro in tre anni). Ma anche per questo ecco che torna il primo piano il ruolo che potrebbe svolgere la lotta all’evasione fiscale, da perseguire con determinazione ed i cui proventi andrebbero destinati, insieme con i risparmi ottenuti con una vera e concreta spending review, ad immediati interventi di riduzioni della pressione fiscale sui cittadini onesti.
Le stime più accreditate disegnano una immagine devastante del sistema fiscale italiano e dell’evasione fiscale: almeno 120 miliardi di euro l’anno, l’8,7 per cento del pil, il 19 per cento delle entrate fiscali, oltre il 27 per cento di quelle tributarie, 2 o 3 volte di più di quanto riscontrabile nei paesi più avanzati. In questo siamo secondi solo alla Grecia. Si possono ottenere risultati? Contrariamente alla narrazione preferita dalle destre, secondo le quali l’unica strada per ottenere davvero risultati è quella dei condoni agli evasori e agli esportatori di capitali e tutto il resto non funziona, ebbene sì, si possono ottenere risultati (in realtà, se si guardano i fatti, è già avvenuto) e oggi ciò può accadere senza ricorrere a forme di coercizione, a procedure burocratiche, a interventi invasivi.
Sulla base dei dati di fatto, è palese che la base di ogni scappatoia è l’evasione dell’Iva. Tutti gli esperti la calcolano in almeno 40 miliardi di euro l’anno (più il recupero dell’Irpef e dell’Ires che ne deriverebbe a cascata). Come fare? La tecnologia ha fatto progressi enormi. E reso tutto più facile, se lo si vuole fare. Basterebbe per esempio usare la linea telefonica (c’è un ufficio, un negozio, una bottega che non ce l’ha oggi?) e organizzare per via telematica un semplice sistema di trasmissione automatica al fisco dei dati contenuti nelle fatture emesse e delle relative ricevute. In altri campi che non siano il fisco questo scambio di dati funziona benissimo (si pensi al sistema dei pagamenti). In questo modo si eliminerebbe senza bisogno di alcuna iniziativa repressiva gran parte dell’evasione che oggi si verifica lungo la catena distributiva, e si semplificherebbero fortemente gli adempimenti burocratici attuali (di cui vi sarebbe molto meno bisogno). Nel giro di pochi mesi questa pratica consentirebbe di chiudere diversi buchi nella rete dell’Iva. Naturalmente anche altre iniziative potrebbero essere adottate. Per esempio, si potrebbe prevedere di adottare per gli scambi intermedi, quindi non per il consumatore finale, solo la cosiddetta aliquota normale, che avrebbe un effetto neutro sugli onesti (tanto si paga tanto si scarica), ma toglierebbe ai disonesti la possibilità di giocare sulle diverse aliquote. Tutte queste proposte il governo le conosce già. Non dico che sono le uniche possibili. Ma vogliamo parlarne o no?
Infine, ma non in ordine di importanza, vorrei fare qualche riflessione sul pericoloso velleitarismo di proposte campate per aria e che potrebbero risultare rovinose per il Paese, anche se possono invece risultare molto affascinanti per gli elettori. Penso in particolare alla proposta di Matteo Salvini che recupera post-mortem l’ipotesi di una flat tax al 15 per cento con la progressività affidata alle detrazioni di imposta. A parte i costi astronomici dell’operazione, una imposta piatta rispetto a una imposta progressiva a scaglioni concentra, a parità di gettito, il prelievo sulle classi medie, sgravando soprattutto i “ricchi”. Un errore economico, oltre che una ulteriore ingiustizia nella distribuzione del reddito.
In conclusione, penso che si debbano trovare le risorse per abbassare la pressione fiscale per tutti. Ma i primi e principali beneficiari credo che debbano essere, per giustizia e per efficacia nel sostegno dello sviluppo, i lavoratori e le imprese produttive, i poveri e i ceti medi.
Chi è Roberto Speranza e che ambizioni ha
Roberto Speranza è nato a Potenza il 4 gennaio 1979, è un parlamentare del Pd ed è stato capogruppo del Partito democratico, alla Camera, dal 19 marzo 2013 al 15 aprile 2015. Il 15 aprile 2015 si è dimesso da capogruppo alla Camera per protestare contro la decisione del governo Renzi di porre la fiducia sulla legge elettorale. Speranza, legato sia a Pier Luigi Bersani sia a Massimo D’Alema, è una delle giovani leve del Partito democratico e ha scelto, dimettendosi da capogruppo, di concentrarsi più sul partito e sul coordinamento della sua corrente: area riformista. Area riformista comprende circa un centinaio di parlamentari e tra questi sono compresi molti di quei senatori del Pd che hanno scelto di ingaggiare una tosta battaglia con Renzi sulle riforme costituzionali (al momento senza il voto di quei senatori al Senato il governo Renzi non ha i numeri per avere la maggioranza a Palazzo Madama). Speranza, nell’attesa che si manifesti un altro competitor, si sta muovendo per costruire una candidatura alternativa a quella di Renzi alla segreteria del Pd. Il Foglio, con questo intervento, anticipa quale sarà il terreno sul quale la minoranza del Pd ingaggiare con il segretario del partito una battaglia che promette di essere tosta almeno quanto quella ingaggiata sulle riforme costituzionali.