Cos'hanno in comune tra loro Landini, Le Pen, Grillo e Salvini
Sostiene Landini: “La coalizione sociale realizza oggi ciò che vi è nel marxismo di più vero, di potentemente originale, di superiore a tutte le formule (…). Il sindacato è lo strumento della trasformazione sociale”.
Scusate, era una bufala. A parlare così non è Maurizio Landini ma è stato più di un secolo fa Georges Sorel, filosofo francese considerato il “padre” del sindacalismo rivoluzionario, e le parole “coalizione sociale” – invece di “sindacalismo rivoluzionario” – e “trasformazione” – invece di “guerra” – sono apocrife. Ma il concetto espresso da Sorel, l’idea cioè che il sindacato dovesse svolgere un ruolo politico generale e diretto evitando ogni delega di rappresentanza ai partiti socialisti, ricorda da vicino la formula landiniana della coalizione sociale: alleanza tra soggetti sociali nei quali si esprime l’autorganizzazione dei lavoratori e dei cittadini “attivi”, soggetto pienamente politico pur non essendo e non volendo farsi “partito” che ambisce a rappresentare bisogni e interessi che i partiti – in particolare il Partito democratico – hanno smesso di rappresentare. Così, chi contesta a Landini – buona parte del Pd, la stessa Camusso – di collocarsi con la propria iniziativa fuori dalla logica tradizionale dell’azione sindacale, dice una sciocchezza, almeno se si guarda alla storia europea dell’ultimo secolo e mezzo. Nei grandi paesi europei i sindacati nazionali sono nati a fine Ottocento, sviluppandosi sulla base di due modelli principali. Quello più precoce delle “trade-unions” inglesi e di buona parte del sindacalismo tedesco, che concepiva i compiti del sindacato come legati prevalentemente alla dimensione economica, alla “contrattazione” di condizioni migliori di salario e di lavoro per gli operai, e che quanto alla politica si poneva in un rapporto stretto, di sostanziale “collateralismo”, con i partiti socialisti e laburisti; e un modello alternativo affermatosi in particolare in Francia, che richiamando per l’appunto le tesi del sindacalismo rivoluzionario teorizzava e in larga misura praticava l’autorganizzazione anche politica dei lavoratori e l’indipendenza dai partiti socialisti. Questa seconda via rimase per lungo tempo la scelta maggioritaria del sindacalismo francese ed ebbe largo seguito anche in Italia, dove all’inizio del Novecento il sindacalismo rivoluzionario raccolse l’adesione di importanti intellettuali socialisti – Arturo Labriola, Enrico Leone, Angelo Olivetti – e mise radici solide in molte organizzazioni sindacali di base. In quegli anni militarono tra i sindacalisti rivoluzionari anche Léon Jouhaux e Giuseppe Di Vittorio, che diventeranno i due leader sindacali più popolari e celebrati di Francia e d’Italia: il primo guiderà per quasi quarant’anni la Cgt, il principale sindacato francese, il secondo sarà a capo della Cgil dal 1945 fino alla morte (1957).
Dunque la scelta di Landini non arriva dal nulla, e il segretario della Fiom nella sua nuova veste di leader un po’ extra politico e un po’ anti politico, ma insieme politicissimo, può contare sull’esempio di illustri predecessori. Nella sua idea di coalizione sociale, le analogie con il sindacalismo rivoluzionario sono notevoli. In entrambi i casi vi è il rifiuto di delegare ai partiti, in particolare a quelli che si dichiarano di sinistra, la rappresentanza politica delle ragioni sociali dei “lavoratori”; e comuni alle due proposte sono anche alcune circostanze contingenti: come la coalizione sociale di Landini nasce in reazione a una politica e in particolare a un partito – il Pd – giudicati irrimediabilmente lontani dalle esigenze e dalle aspirazioni del mondo del lavoro, così il sindacalismo rivoluzionario reagiva alla “deriva” riformista dei primi partiti socialisti che in Francia come in Italia, entrati nel gioco parlamentare, si stavano aprendo alla possibilità di collaborazioni anche di governo con i “partiti borghesi”.
Il sindacalismo rivoluzionario di Sorel e la coalizione sociale di Landini appartengono evidentemente a mondi e a epoche tra loro incomparabili: lì era lo “stato nascente” del movimento sindacale, qui è il tentativo di fermarne il declino reinventandone la funzione. Ma tra le due prospettive corrono sorprendenti analogie, anche di linguaggio. Una su tutte: l’idea di “andare oltre” i concetti tradizionali di destra e sinistra.
Nel caso di molti intellettuali vicini al sindacalismo rivoluzionario, non ci si fermò solo all’idea. In Francia, Edouard Berth e Georges Valois – entrambi socialisti rivoluzionari ed entrambi molto legati a Sorel – diedero vita nel 1911 al Cercle Proudhon insieme a esponenti di Action Française, espressione della destra nazionalista. Base di questa inedita convergenza, l’ostilità comune verso la democrazia liberale e i suoi riti costitutivi a cominciare dal parlamentarismo, la rivendicazione della funzione socialmente positiva della nazione e della tradizione, il rifiuto dell’ordine costituito e di ogni “perbenismo” borghese: tutto dentro un’ansia generale di ribellione con una forte impronta sia sociale che generazionale che fu il segno distintivo, nella Francia di quegli anni, di moltissimi giovani intellettuali “engagés” formatisi sui fronti contrapposti dell’Affaire Dreyfus.
Il “Cercle Proudhon” ebbe vita breve, ma secondo storici autorevoli rappresentò una sorta di “macchina incubatrice” delle idee su cui si costruirà l’ideologia fascista. Anche in Italia diversi esponenti del socialismo rivoluzionario cominciarono ad avvicinarsi in quegli stessi anni al nazionalismo, a “scoprire” nella nazione un motore rivoluzionario assai più potente della classe: tra il 1910 e il 1911 (quando ancora Mussolini, è bene rammentarlo, era saldamente attestato su posizioni internazionaliste e antimilitariste), alcuni di loro (Tomaso Monicelli, Roberto Forges Davanzati) fondano con Papini e Corradini l’Associazione Nazionalista Italiana, e molti altri (Arturo Labriola, Alessio Orano, Angelo Olivetti, Sergio Panunzio) si schierano a favore della guerra di Libia agitando lo slogan dell’Italia “nazione proletaria”. Sulla caratterizzazione del fascismo come ideologia che almeno nelle intenzioni iniziali si pone “oltre” la destra e la sinistra, la discussione è apertissima. Certamente questa lettura aiuta a spiegare la larga abbondanza di passaggi “dal rosso al nero” – socialisti diventati fascisti – che segnò la storia politica europea tra le due guerre mondiali. Tornando a oggi e tornando a Landini, il leader della Fiom ha dichiarato in una recente intervista: “Noi non siamo a sinistra del Pd e non siamo a sinistra di nessuno. Siamo persone che vogliono cambiare il Paese, riaffermare dei diritti e che pensano che le cose che sta facendo il governo Renzi sono contro i lavoratori, contro i precari e a favore solo di una parte del Paese” (Fatto quotidiano del 7 giugno scorso). Rispondendo a Marco Damilano sull’Espresso (26 marzo 2015), Landini è stato sul punto ancora più esplicito: “Io non so più cos’è destra e cos’è sinistra. Oggi lo scontro è tra chi sta bene e chi sta male. E quelli che stanno male sono molti di più. Solo che non li rappresenta nessuno”.
In questa scelta di autoqualificarsi come “oltre” o comunque “altrove” rispetto alla distinzione canonica tra destra e sinistra, Landini è in abbondante compagnia. In Italia la pensano così due dei maggiori protagonisti della scena politica: Salvini e Grillo. Dice Salvini: “Destra e sinistra? Etichette superate. Noi pensiamo che ci sia un diritto al lavoro e siamo dalla parte di chi vuole il diritto di curarsi. Dall’altra parte, c’è lo spread. C’è la finanza. Ci sono le direttive” (2 luglio 2015); e ancora: “Non mi sento di destra, quello tra fascismo e comunismo è un vecchio derby, non ha più senso, vecchie etichette. Ma mi avete visto con la barba e l’orecchino? Non sono certo credibile come fascista. Credo piuttosto alla contrapposizione tra produttori e parassiti” (pagina Facebook della Lega nord Padania, 23 maggio 2015).
Quanto a Grillo, il rifiuto dell’alternativa destra/sinistra è da sempre uno dei suoi temi-totem: “Il tempo delle ideologie è finito – scriveva a inizio 2013 (11 gennaio) il leader dei Cinque stelle sul suo blog –, il Movimento 5 Stelle non è fascista, non è di destra, né di sinistra. E’ sopra e oltre ogni tentativo di ghettizzare, di contrapporre, di mistificare ogni sua parola catalogandola a proprio uso e consumo. Il M5S non ha pregiudiziali nei confronti delle persone. Se sono incensurate, non iscritte a un altro partito o movimento politico, se si riconoscono nel programma, per loro le porte sono e saranno sempre aperte”.
[**Video_box_2**]Anche nel resto d’Europa “né destra né sinistra” è un concetto molto frequentato. Unisce leader politici pure tra loro lontanissimi, da Marine Le Pen, che ne ha fatto una delle principali parole d’ordine del Front National, a Nigel Farage creatore dell’Ukip (“Non sono di destra né di sinistra, sono radicale”, ha dichiarato in un’intervista del novembre 2014 a New Statesman), al capo di Podemos Pablo Iglesias per il quale l’alternativa oggi in campo non è tra destra e sinistra ma tra dittatura e democrazia (intervista all’edizione spagnola di Huffington Post, 16 febbraio 2014). Cos’hanno in comune tra loro Maurizio Landini, Marine Le Pen, Beppe Grillo, Matteo Salvini, Nigel Farage, Pablo Iglesias. Sostanzialmente nulla se si guardano le loro biografie politiche, i loro programmi, le loro – come si dice – visioni del mondo. Parecchio se ci si ferma invece su due “ingredienti” importanti del loro discorso pubblico e anche del loro successo: tutti si richiamano al “popolo” – popolo socialmente e culturalmente indifferenziato – come soggetto collettivo di riferimento; tutti si propongono come estranei all’establishment e al mondo tradizionale della mediazione politica (non a caso nessuna delle loro formazioni si chiama “partito”), come nemici di quello che a loro e a moltissimi altri appare una sorta di “pensiero unico” della globalizzazione tendenzialmente “a-democratico” (fatto proprio in Europa dall’asse tra popolari e socialisti). In questo essi mostrano di vedere bene, molto meglio dei politici tradizionali, tratti essenziali dell’attuale fase storica in Europa: il fatto che le opinioni politiche, il consenso elettorale non si formano quasi più sulla base dello status socio-economico, e poi la crisi sempre più profonda nel rapporto tra rappresentanti e rappresentati e il declino all’apparenza inarrestabile delle forme abituali di mediazione politica.
Insomma, sono più contemporanei. Questa contemporaneità, i partiti eredi del Novecento farebbero bene a rincorrerla, a imitarla (tra i pochi a provarci, in epoche diverse e su opposti versanti, sono stati due italiani: Berlusconi e Renzi). Dovrebbero imitarla proprio per salvare il meglio di se stessi, oppure la loro destra e la loro sinistra somiglieranno sempre di meno alla distinzione edificante proposta da Bobbio e sempre di più alla parodia cantata da Giorgio Gaber: “I collant son quasi sempre di sinistra/il reggicalze è più che mai di destra/la pisciata in compagnia è sinistra/il cesso è sempre a destra”.
Roberto Della Seta è ex presidente di Legambiente