Il badante di Roma
Cocomerari unici sopravvissuti del vizio estivo della Capitale!”, grida il titolo del quotidiano di città. Ma mentre l’afa lascia il posto alla brezza di settembre e i gabbiani che stazionano accanto a spazzatura e camion bar in pieno centro storico paiono meno assidui del solito, il vizio estivo della Capitale tantopiù sopravvive nell’attesa della grande deflagrazione. Quella sempre annunciata e sempre negata (vezzo?) tra il sindaco Ignazio Marino e l’affianca-sindaco nonché prefetto Franco Gabrielli, ex capo della Protezione civile in tempi di terremoti (all’Aquila) e naufragi (al Giglio), ex direttore del Sisde, ex investigatore antiterrorismo e attuale superincaricato del governo nella Roma dello scontento (in vista del Giubileo, ma non solo). Sotto forma di curiosità o perfidia, dunque, il vizio estivo vuole che in questi giorni – al bar, in taxi, nelle redazioni – si cerchi in ogni parola e in ogni gesto dell’uno e dell’altro, Marino e Gabrielli, Gabrielli e Marino, l’indizio della strana coabitazione che verrà. E tutto diventa materia per il romanzo della cosiddetta “diarchia”: due vertici per un Comune, l’un contro l’altro disarmati. Una diarchia smentita e subito ribadita. E se l’uno, il sindaco, si rinserra nel mito dell’omologo newyorkese Bill De Blasio, populista urbano preso a modello fin dall’inizio dell’avventura capitolina, e parla con fervore mistico della Roma dei giusti (la sua, ovviamente, quella che il prefetto imparerà presto a conoscere, ché, dice Marino, delle cose che il ministro Alfano pretende Roma ne ha già fatte il doppio), l’altro, Gabrielli, tira fuori nella nuova multi-funzione un lessico algido da prefetto, vagamente stridente con l’attitudine alla ribalta sperimentata da non prefetto. Gabrielli è infatti l’uomo che nel 2011 lanciava senza sordina l’allarme contro coloro che dal governo (allora governo Berlusconi) volevano, così disse, affondare “la protezione Civile come il Titanic”. E in tempi di affondamenti veri (Costa Concordia), l’allora capo della Protezione civile si lasciava sfuggire la parola non diplomatica (cioè “infami”, ricorda Marco Damilano sull’Espresso: pare che Gabrielli fosse infuriato con coloro che non credevano alla rapida riuscita delle operazioni di raddrizzamento del relitto e anzi profetizzavano sventura – Cassandre o gufi, per usare l’espressione dei tempi renziani).
“Sì, ci siamo sentiti tra un’immersione e l’altra”, è stata l’allusione al Marino vacanziero detta a mezza bocca dal prefetto Gabrielli ai cronisti, nel primo giorno da affiancatore-coordinatore-supervisore-commissario-guida-tutor, come lo chiamano i giornali (ma il tassista incazzato, interpellato in proposito, dice che il Campidoglio gli pare piuttosto aver bisogno di un “badante”). E se oggi il prefetto assurge a diarca (lui nega, e nega pure di voler scendere in politica) “domani comunque può puntare al vertice della Polizia”, dicono nei corridoi non più sonnacchiosi del Comune, al termine delle ferie di sindaco più contestate della storia dei sindaci (il vicesindaco Marco Causi ha provato a difenderlo, Marino, ché l’accanimento gli pareva eccessivo: guardate che Marino si è preso diciotto giorni come un qualsiasi dirigente in qualsiasi realtà lavorativa, ma il problema per molti era proprio quello, che Marino non era un dirigente qualsiasi, e in tempi di funerali Casamonica a cavallo e feste di piazza con pubblica lettura di intercettazioni (Castel Sant’Angelo, kermesse annuale del Fatto quotidiano), nulla, tantomeno il prefetto che ci metteva il carico finale con quel “ci siamo sentiti tra un’immersione e l’altra”, poteva fermare il dàgli alla ricreazione dell’ex chirurgo e subaqueo Ignazio. E c’era chi, per esempio sul Tempo, faceva notare la crudele analogia Marino-Fini (Gianfranco): pare strano, ma a un certo punto della carriera, spesso quando sono in parabola discendente, i politici corrono a rifugiarsi negli abissi.
Tuttavia il prefetto Gabrielli, di fronte al bailamme spicciolo su chi c’è e chi non c’è, fa anche un po’ finta di nulla, ma è un fare finta di nulla diverso da quello del sindaco (che da mesi, a ogni pubblico incontro, mentre a Roma cresce la febbre del sospetto e dispetto incrociato, parla da Candide: tutto a posto, resterò fino al 2018, anzi fino al 2023). E più il prefetto Gabrielli fa finta di nulla, sottolineando che ognuno fa il suo mestiere e che con il sindaco ci sarà dialogo e collaborazione, più la parola che scioglie i dubbi sulla natura del futuro equilibrio a due sgorga automatica nei suoi brevi cenni sull’universo-Roma: non sarò un notaio, e all’occorrenza il Comune può essere sciolto, ha detto, casomai a qualcuno fosse venuto in mente di considerarlo anche soltanto per un secondo un passacarte.
Dice che avrà giornate ricche e che ci vorrebbero trentasei ore, Gabrielli, abituato ai ritmi del se stesso di prima: l’uomo delle grandi emergenze e lo “sbirro”, parola non offensiva per uno che in tempi lontani, negli anni Ottanta, nei pressi di Viareggio, già giovane politico della sinistra diccì (area Renzo Lusetti) a un certo punto molla i congressi della Balena Bianca non ancora spiaggiata per entrare in Polizia. Ed è lì che si apre il capitolo che ha fatto di Gabrielli un tipo “non prefettizio” dal punto di vista dell’esposizione mediatica. Nel 2003, infatti, il gruppo di agenti della Digos coordinati a Roma dal futuro prefetto manda a processo i responsabili dei delitti D’Antona e Biagi, dopo lunga indagine telematica e cattura su un treno della neo-br Nadia Desdemona Lioce, con scontro a fuoco durante il quale muoiono l’agente Emanuele Petri e il brigatista Mario Galesi. In seguito Gabrielli racconterà l’operazione difendendosi dagli scettici (l’abitudine gli dev’essere rimasta, a giudicare dalla suddetta veemenza contro i “gufi” che non credevano al salvataggio della Concordia): “E’ stata spiegata l’importanza del materiale sequestrato, i telefoni, i palmari, ma non è vero che brancolavamo nel buio”, dirà. “Certo non disponevamo della ‘vita interna’ del gruppo raccontataci, anche quella, in seguito a un difficile lavoro tecnico su computer e telefoni. Diciamo che immaginavamo un quadro abbastanza rispondente alla realtà, riassumibile in una frase coniata all’inizio del lavoro sul dopo-D’Antona: ‘Abbiamo a che fare con una sorta di cenacolo di disperati’…”. Da dove avete cominciato?, chiederanno i cronisti, e Gabrielli risponderà: “Dovevamo cominciare da dove avevamo lasciato: le rapine di autofinanziamento del 1995 che disegnavano una chiara linea, l’asse fra Roma e la Toscana, i Nuclei comunisti combattenti. I famosi ‘raccordi cresciuti’ che, poi, nelle rivendicazioni successive avrebbero dichiarato di essersi assunti ‘la responsabilità’ dell’eredità brigatista. E proprio perché sapevamo dove andare – seppure con la difficoltà di dover superare il trauma della ricomparsa di un incubo… siamo stati in grado di selezionare le infinite informazioni che arrivavano dalla tecnologia ed evitare di dover colpire nel mucchio”.
Il precedente di metodo è l’inchiesta sulle stragi di mafia del ’93. “Quella sulle stragi del 1993”, racconta infatti Gabrielli nel 2009, quando ormai è a capo della Protezione civile, “è stata la prima inchiesta importante in cui venne applicata la tecnica investigativa dell’analisi dei tabulati telefonici. Grazie a quelli scoprimmo che, in quei giorni, a Firenze era stato ‘agganciato’ il cellulare di Gaspare Spatuzza. Fu la svolta. Quell’esperienza ci fornì un modello che si rivelò fondamentale anni dopo, nelle inchieste sugli omicidi Biagi e D’Antona”. Suoi maestri, allora, sono il procuratore Piero Luigi Vigna, il pm Gabriele Chelazzi e Antonio Manganelli, poi capo della Polizia con cui Gabrielli scriverà a quattro mani un manuale sulle tecniche d’indagine. Proprio in quegli anni Gabrielli matura l’impostazione anti-complottista oggi desueta (e vituperata) presso le platee del web: “Quando ci sono fatti di questo genere, in Italia c’è sempre chi alimenta il culto del mistero irrisolto. Ecco, dal punto di vista delle responsabilità di chi ideò e di chi realizzò, per le stragi del 1993 lo scenario tracciato dai tribunali non lascia spazio a ombre”.
[**Video_box_2**]Con tutto l’onore e l’onere delle indagini “monstre”, a questo punto è il curriculum, se non il tono non proprio neutro verso la giunta Marino, a remare contro la costruzione del personaggio di un Gabrielli prefetto puro – nel senso dell’aderenza all’esercizio di un potere di retrovia. Né si può fare a meno di considerarlo fisiognomicamente pronto per il remake degli “Intoccabili” di Brian de Palma, film cult sulla Chicago del proibizionismo, tra gang rivali, detective ombrosi, efferatezze e carrozzine che corrono giù dalle scale come ne “La Corazzata Potëmkin”. Cinematografico (volutamente cinematografico?) pare pure il ritmo lento del suo eloquio (“molto attento al ricasco mediatico” è, non a caso, l’osservazione frequente dei maliziosi). L’effetto “noir anni Trenta”, comunque, era già evidente nel Gabrielli d’archivio, camicia celeste e occhialetto calato sul naso, o nelle famose conferenze stampa dall’isola del Giglio, quelle in cui, con tono grave, da capo della Protezione civile, aggiornava gli astanti in tempo reale e forse in mondovisione sulla posizione della prua del piroscafo tristemente squarciato, mezzo-sollevato dal fondale e non ancora in navigazione verso Genova. Tutto il contrario del prefetto defilato e di “avveduta precauzione” descritto da Leonardo Sciascia in “Invenzione di una prefettura”. Gabrielli è infattti uno che dice di non essere “Super Pippo” né “Mandrake”, e già il paragone-cartoon è di per sé poco classicamente prefettizio, per non parlare dell’espressione “tarallucci e vino” usata per far capire come non debbano dipanarsi, a suo avviso, i rapporti con Marino.
Ma già ai tempi del suo predecessore, prefetto Giuseppe Pecoraro, l’uomo che polemizzava con Marino su nozze gay, Mafia capitale o monnezza, con tanto di dispute altolocate con Giorgio Albertazzi e Franca Valeri su Villa Adriana minacciata dalla discarica di Corcolle, si faticava a vedere nella figura prefettizia moderna un clone degli uno-nessuno e centomila prefetti di Elio Petri, quelli che in “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” appaiono identici nell’indistinto degli abiti scuri tutti uguali e dei fazzoletti bianchi tutti uguali.
Che sia l’epoca dei commissari tecnici (non sportivi) a rendere obsoleta l’idea di un prefetto silente? Gabrielli, intanto, non pare uno che voglia scriversi la sua piccola storia all’ombra, e nemmeno uno che dalle periferie dello Stato, accoccolato in un pur insopportabile quieto vivere, si danna per non essere trasferito (è il prefetto di “L’ultima provincia” di Luisa Adorno, uno che in casa indossa il pigiama fuori orario per disfarsi della gabbia di ipercontrollo in cui si è rinchiuso volontariamente).
E alla fine la rilevanza nascosta del prefetto diventa rilevanza da palcoscenico nell’urgenza dell’intervento di un “esterno”, deus ex machina reale o apparente che non minacci di fare il Mario Monti (Gabrielli su questo piano rassicura, ché per ora dice “non mi candido”, anche se la politica è la sua radice fin da quando, nella Dc che l’ha visto giovane aspirante quadro, si muoveva, ricorda sempre l’Espresso, accanto agli allora inesperti Dario Franceschini e Angelino Alfano). E se c’è chi, dal centrodestra, ha dato a Gabrielli di “prefetto rosso”, c’è pure chi ricorda la perfezione bipartisan dei buoni rapporti ad alto livello che puntellano le sue varie carriere: Romano Prodi, ma pure a un certo punto Gianni Letta; Beppe Pisanu, ma pure a un certo punto l’ex compagno di gioventù democristiana Enrico Letta. Infine Matteo Renzi, a dispetto della rivalità intra-Pd tra Letta e Renzi. Piace insomma trasversalmente ai politici, Gabrielli, almeno quanto trasversalmente dispiace agli ultrà (“disputare a porte chiuse le partite ad alto rischio”, ha detto il prefetto in un giorno di paura e delirio attorno allo stadio Olimpico, e vai a pensare che la sua personale guerriglia urbana doveva ancora cominciare).