Luciano Violante (foto LaPresse)

Non solo Cantone

L'affondo di Violante per farla finita con il totalitarismo giudiziario

Marianna Rizzini
Se i partiti sono in crisi, la magistratura non sta meglio: Csm irresponsabile, clientele, obbligatorietà come feticcio

Roma. C’è Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, magistrato di sinistra e figura chiave della nouvelle vague moralistica di epoca renziana che, alla festa dell’Unità di Milano, parla a tutto campo dei rapporti disfunzionali tra magistratura e politica sotto vari aspetti (Md, l’Anm, le correnti, il Csm, l’obbligatorietà dell’azione penale e sulla trattativa stato-mafia). E c’è Luciano Violante, ex magistrato, ex presidente della Camera e della commissione parlamentare Antimafia, docente e a lungo parlamentare che invoca l’autoriforma della magistratura per motivi simili se non identici: rapporti squilibrati tra i due ordini, politico e giudiziario, dovuti soprattutto “alla crisi di sovranità della politica” che non riesce più a stabilire confini certi (già nel 2009 Violante ne parlava in “Magistrati”, edizioni Einaudi, libro in cui affrontava il problema della perdita di credibilità della politica e della conseguente espansione della sfera di influenza del diritto). Sullo sfondo, c’è un altro libro, quello di Piero Tony, ex procuratore capo di Prato presente al dibattito di Milano con Cantone e autore di “Io non posso tacere” (sempre Einaudi), libro in cui mette sotto accusa la magistratura politicizzata e i processi a mezzo stampa. E già “si sarebbe a buon punto” sulla strada dell’autoriforma, dice Violante, se si cominciassero a mettere insieme questi tasselli, e magari anche “il libro di Aniello Nappi sulla sua esperienza al Csm” (“Quattro anni a Palazzo dei Marescialli – idee eretiche sul Csm”, Aracne). E sì, ha ragione Cantone sul fatto che l’obbligatorietà dell’azione penale sia “una ipocrisia”, dice Violante, ma c’è prima da fare tutta una riflessione “sullo spirito che pervade alcuni settori della magistratura che costruiscono inchieste giudiziarie indipendentemente  da una specifica notizia di reato perché ritengono di avere un ruolo salvifico contro la politica, per cui tutto ciò che ha effetti scandalistici o spettacolari contro la politica, è un bene di per sé. Eppure la Repubblica concede alle magistrature poteri enormi sui beni e sulle libertà dei cittadini, solo sulla base di condizioni chiare ed entro limiti precisi, altrimenti si sconfina nel totalitarismo giudiziario, quella che alcuni studiosi americani chiamano Giuristocrazia (Juristocracy)”.

 

Da dove partire, per l’autoriforma, dunque? Violante pensa intanto che una riforma del Csm sia “assolutamente indispensabile e che bene abbia fatto il ministro Orlando a istituire un gruppo di lavoro sul tema”. Sarebbe anche “opportuno”, riguardo alla questione della responsabilità disciplinare per tutte le magistrature, una “istituzione diversa dagli organi di governo interno perché il giudizio dei pari non è più accettabile in un sistema democratico moderno”. Secondo importante nucleo di riflessione, dice Violante, dovrebbe essere quello “dei doveri morali dei magistrati: innanzitutto il rispetto per chi ti sta di fronte, avvocato, imputato, parte privata di una controversia civile, e poi una maggiore attenzione al precedente: le sentenze incidono profondamente sulla vita dei cittadini, e il cittadino si regola sulla base di ciò che ritiene essere legittimo. Ma che fare se cambia in corso d’opera l’interpretazione della legge e che quello che era legittimo ieri diventa illegittimo oggi? Molte imprese straniere si affidano a grandi studi legali per prevenire il ‘rischio giuridico’”. Non parla certo di obbligatorietà del precedente, Violante, ma, in termini di certezza del diritto, di “una certa vincolatività di quella che è stata l’interpretazione fino a quel momento prevalente, superabile soltanto sulla base di forti e ragionevoli argomentazioni: quello che conta non è tanto il diritto scritto nei libri ma il diritto che scorre nella vita della società e delle persone”.

 

Lungo la via dell’autoriforma, Violante non colloca la separazione delle carriere (“avremmo due corporazioni invece di una”), ma auspica (come Cantone) “una riflessione” sull’obbligatorietà dell’azione penale che è “comunque discrezionale”. Ma è quando si viene al Csm che Violante è più netto: “Centro di potere vuoto, dice Cantone. Io dico piuttosto centro di potere pieno, oscuro e irresponsabile. Un potere di cui non si capiscono bene le logiche e che però incide direttamente, e in modo rilevante, sulla magistratura stessa”. Quanto alle correnti che Cantone definisce “un cancro”, Violante, che pure non userebbe lo stesso termine, dice che in seno al Csm “operano prevalentemente come garanzia delle clientele”.

 

[**Video_box_2**]Autoriforma della magistratura, allora, ma anche messa a fuoco di alcuni punti chiave dello squilibrio di rapporti magistratura-politica. Per esempio sulla trattativa stato-mafia. A Cantone piacciono le parole di Tony sul tema (“… un pentolone all’interno del quale ho visto confluire molti degli ingredienti del processo mediatico… in questa storia alcuni magistrati si sono mossi più come giornalisti che come inquirenti…”). Violante dice: “Più che altro non si capisce bene dove si va a parare, nell’inchiesta sulla trattativa. Intanto fa pensare il fatto che dei due principali pm che hanno lavorato sul caso, Antonino Ingroia e Nino Di Matteo, uno si sia dato senza successo alla politica e l’altro abbia chiesto, pur senza esito, di entrare nella procura nazionale Antimafia. L’accusa è diventata più quando Mario Mori è stato assolto in primo grado da alcune accuse chiave per l’esito del processo. Senza contare che l’inchiesta è stata utilizzata strumentalmente da una serie di organi di stampa e da alcuni settori del mondo politico che poi devono essersi resi conto che poteva trattarsi di una scatola vuota”. Risultato: “L’inasprimento dei rapporti tra i due mondi – quello politico e quello giudiziario – con una magistratura che ha ritenuto di assumersi la funzione di tutrice morale della nazione e rischia invece una drammatica delegittimazione”.

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.