La bolla di Corbyn e la gioiosa macchina da guerra dell'internazionale degli yogurt
Non bisogna essere arroganti e pensare che la vittoria inglese di Jeremy Corbyn – da sabato nuovo leader dei Labour – sia una vittoria che si spiega con l’impazzimento degli elettori, con il trionfo del populismo becero, con l’affermazione definitiva, persino in Inghilterra, della dottrina dell’anti austerità e altre scemenze del genere. Non bisogna essere arroganti e guardare con fastidio e disprezzo i Jeremy Corbyn, gli Iglesias, i Varoufakis, i Farage, i Salvini, le Le Pen, persino i Grillo, persino i Trump, e non perché ci sia qualcosa che si possa condividere delle loro posizioni (condivisibili più o meno come la campagna acquisti del Milan) ma semplicemente perché l’internazionale dei Corbyn e dei Civati e dei Fassina e dei Podemos e dei Di Maio non è altro che una straordinaria bolla mediatica che sarà presto destinata a essere spazzata via dalla storia.
Corbyn, in Inghilterra, esiste perché Cameron ha cannibalizzato la sinistra mettendo insieme blairismo e thatcherismo, austerity e crescita, deficit spending e big society, spending review e riduzione delle tasse, attenzione agli ultimi e attenzione ai primi, e la sinistra inglese, di fronte all’egemonia cameroniana, ha fatto una scelta semplice e suicida: ha rinunciato a contendere lo spazio centrale del paese a Cameron e ha deciso che il modo migliore per costruire nel futuro una sinistra di governo (auguri) è farlo partendo da posizioni anti sistemiche, declinando l’inutile dottrina dell’anti austerity – è sempre colpa del liberismo, signora mia. Il modello Corbyn, come il modello Grillo, come il modello Salvini, è un modello che funziona solo se quello alternativo fallisce e la conseguenza di questa nuova polarizzazione tra partiti di governo e partiti anti governo è quella di trascinare verso il partito di governo anche elettori che in teoria sarebbero lontani dalla cultura politica del partito che sta governando.
Qui però ci interessa il caso Corbyn perché quel che sta succedendo in Inghilterra è lo specchio perfetto di quello che potrebbe succedere in Italia non nel centrosinistra bensì nel centrodestra, dove la Lega di Salvini sta costruendo la sua fortuna politica sulla base di un equivoco storico: la Lega, per chi non lo avesse ancora capito, conquista elettori di centrodestra non perché sia particolarmente seduttiva ma perché il centrodestra, inseguendo Salvini, non fa altro che spingere una parte dei suoi elettori verso la Lega. E questo succede per una ragione banale e lineare: le forze politiche che si oppongono al sistema non emergono per la cialtronaggine degli elettori, emergono perché chi dovrebbe fargli concorrenza semplicemente non ci riesce. Vi fa schifo Trump? Vi fa schifo Grillo? Vi fa schifo Corbyn? Non prendetevela con chi li vota, prendetevela con chi non riesce a creare un’alternativa o quantomeno una competizione reale. Ovvio, no?
Una volta descritta la cornice bisogna però andare al cuore del problema e ci serviamo di un magnifico articolo uscito qualche giorno fa sul New Yorker a firma di George Packer: il populismo nasce per mancanza di alternative ma il populismo in sé non può essere strutturalmente un carburante per far funzionare il motore di un governo per via della sua natura intrinsecamente volatile: è più una spinta verso una reazione che a una riforma ed è più una spinta verso un capro espiatorio che verso una soluzione pragmatica.
In fondo, a pensarci bene, è la stessa Inghilterra di Cameron ad aver dimostrato pochi mesi fa che i Farage, gli indipendentisti e gli Iglesias d’oltre Manica li annienti in un modo molto semplice: zittendoli con i risultati. E paradossalmente, oggi, se si sanno azionare le giuste leve, non c’è niente di meglio che trovarsi alla guida di un paese (chiedere a Merkel, chiedere a Cameron, chiedere persino a Renzi) per sfidare chi si oppone alle politiche di governo senza presentare però opzioni credibili. Un leader che ha capito che gli elettori si possono prendere per i fondelli solo per un periodo molto limitato con la solita storia del partito di lotta e di governo è certamente Alexis Tsipras e domenica prossima sarà interessante capire se il dimissionario capo del governo greco risulterà davvero accattivante nel suo nuovo volto di campione del realismo e non più dell’anti-austerità-è-tutta-colpa-della-merkel-è-tutta-colpa-del-liberismo.
[**Video_box_2**]Ma più che Tsipras, il caso di scuola che ci fa più sangue e che potrebbe dimostrare che l’internazionale dei Corbyn funziona solo nei talk show è certamente quello spagnolo. A novembre Mariano Rajoy, campione dell’austerità espansiva, premier in carica, capo del partito popolare, sfiderà il partito socialista di Pedro Sanchez e i compañeros di Podemos guidati da Pablo Iglesias. Sanchez ha scelto di inseguire Podemos per evitare di farsi rubare voti dalla stessa Podemos. Podemos, da parte sua, ha scelto invece di sfidare Rajoy contrapponendo la politica dell’incredibile (Podemos) a quella del credibile (i non Podemos). La Spagna è una realtà complicata dove la crescita è forte, una delle più poderose d’Europa, ma dove la disoccupazione è ancora a livelli di guardia.
Per Rajoy la sfida non sarà semplice ma dovesse vincere, cosa tutt’altro che impossibile, la sua storia sarebbe perfetta per dimostrare che l’internazionale dei Corbyn, in presenza di un’alternativa credibile, ha lo stesso destino di un palloncino bucato. E magari funziona bene in prima serata, certo, ma alla fine non c’è storia. E alla fine il suo destino è sempre quello: scadere presto, più o meno come gli yogurt.