Il ministro della Giustizia Andrea Orlando (foto LaPresse)

Perfino Achille conosceva il confine tra vendetta personale e processo penale

Guido Vitiello
Se la giustizia toglie il sonno (ma produce mostri). La questione dei parenti delle vittime è antica quanto il più antico dei processi, quello effigiato sullo scudo di Achille, lì sta il confine tra vendetta e giustizia.

Quando la notte penso alla giustizia, non mi addormento più. Ogni volta ce n’è una nuova, e l’ultima mi toglie il sonno da ormai una settimana. L’11 settembre, a margine di un incontro alla Festa dell’Unità di Firenze, un cronista ha chiesto al ministro Orlando un commento sull’ennesimo strascico del caso Marta Russo. Lui se n’è astenuto, salvo enunciare il principio generale che la vicenda gli pare suggerire: “Bisogna ragionare su come costruire un rapporto tra chi ha commesso il reato e la vittima”. Possibile? Io ero certo che il caso sollevasse il problema opposto, ossia come spezzare quel rapporto e impedire che il ruolo delle vittime e dei loro parenti produca effetti perversi sullo stato di diritto. Che avrà voluto intendere, il ministro? O era sovrappensiero e ha detto la prima frase che gli passava per la testa? Il sonno, intanto, era perso. D’altronde la questione dei parenti delle vittime è antica quanto il più antico dei processi, quello effigiato sullo scudo di Achille, lì sta il confine tra vendetta e giustizia, come pretendere di venirne a capo in una notte?

 

Vecchi ricordi, causa di vecchie insonnie, continuavano ad affiorare. Il caso più terribile di tutti: il tribunale di sorveglianza di Bologna che nel 2010 convocò per posta i parenti delle vittime del brigatista Gallinari per chiedere se lo avessero perdonato, così da decidere se ammetterlo o meno alla liberazione condizionale. Poi l’eco di una frase da sciocchezzaio flaubertiano, pronunciata mille volte in questi anni tra pensosi cenni di assenso, e tuttavia perfettamente demenziale: “Qui c’è troppo garantismo per i delinquenti e poco per le vittime”. Ma anche incubi più recenti, Travaglio che brandisce come una clava i parenti delle vittime di via dei Georgofili per difendere quelli che per lui sono i baluardi della civiltà, l’ergastolo e il 41bis, e infine tutta la chiassosa vittimologia del circo dell’antimafia. Non restava che accendere il lume sul comodino e mettersi a leggere.

 

Raramente si ricorda che Daniel Soulez Larivière, l’avvocato parigino autore di quel “Circo mediatico-giudiziario” (Liberilibri) di cui molti in Italia hanno letto per intero il titolo, ha scritto quindici anni dopo anche un altro saggio insieme alla psicoanalista Caroline Eliacheff, “Il tempo delle vittime” (Ponte alla Grazie). Vi si sostiene che dall’epoca della Bibbia tutti gli sforzi della civiltà giuridica in occidente sono stati tesi ad allontanare la vittima dalla scena penale, ma che in Francia le cose si vanno capovolgendo: la vittima ha assunto un ruolo ipertrofico, che minaccia di privatizzare surrettiziamente la giustizia e di trasformare il processo penale in un duello tra l’imputato e l’offeso. Se il libro sul circo bisognava catapultarlo dal cielo come i pacchi di viveri in guerra, quest’altro merita almeno di essere rimeditato, specie adesso che gli Stati generali dell’esecuzione penale convocati da Orlando annunciano di studiare, tra le altre cose, “percorsi che consentano alla vittima di recuperare una posizione di centralità nel procedimento penale”.

 

[**Video_box_2**]Tanto siamo abituati ad affidare alla spada della legge la nostra sete di risarcimento che in inglese si dice “to take the law in one’s own hands”, prendere la legge nelle proprie mani, quasi a indicare che colui che si fa giustizia da sé sta giocando a fare il piccolo Stato. Ma cosa accade se la legge stessa mette in mano la sua spada alle vittime o ai loro parenti, come alcuni auspicano e come qualche vicenda sembra prefigurare? Ecco, ora non ci dormo per un altro mese.

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