Scissione & Liberazione
In fondo il punto è semplice, e a voler utilizzare un gioco di parole per mettere insieme il pomeriggio di passione del Pd di lunedì e il risultato del voto in Grecia di domenica scorsa potremmo metterla giù così: per la sinistra italiana e per quella greca la vera e unica direzione oggi non può che essere la scissione. Alexis Tsipras, naturalmente, non è Matteo Renzi e ha una storia e un percorso differenti che rendono il leader di Syriza per molti versi distante anni luce dal capo del governo italiano. Eppure la lezione, una delle tante, che arriva dal voto greco, dalla prova di forza del capo di Syriza, dal rapido passaggio politico da un’Altra Europa con Tsipras a un altro Tsipras con l’Europa (copyright il Fatto), è che in un’epoca di grandi trasformazioni politiche come quella che stiamo vivendo, dove gli elettori cambiano velocemente idea e dove anche gli stessi leader politici spesso sono costretti a rivedere in corsa i propri programmi politici (qualcuno ricordi a Nichi Vendola e compagnia che lo Tsipras che avrebbe dato un altro duro colpo all’Europa è lo stesso Tsipras che dopo la presa per i fondelli del referendum anti austerità è stato costretto ad accettare dall’Europa delle condizioni persino più severe rispetto a quelle bocciate dal referendum). In quest’epoca, si diceva, la notizia della morte di un grande partito di sinistra in seguito a una scissione possiamo dire che è ampiamente esagerata. Per stare ai fatti – e collegarci anche allo scenario forse inevitabile con cui dovrà fare i conti il Pd di Renzi – in Grecia abbiamo scoperto quanto segue: la scissione che ha colpito in modo drastico Syriza e che ha coinvolto la metà del comitato centrale del partito e circa un quarto dei parlamentari ha riguardato in realtà solo un decimo degli elettori e con ogni probabilità la rottura di quelle catene ha permesso a Tsipras di conquistare elettori che difficilmente lo avrebbero votato, se Syriza non si fosse sbarazzata dei Varoufakis e degli altri centauri della sinistra bla bla.
Il dato può stupire solo fino a un certo punto e in fondo ha una sua spiegazione quasi matematica. In tutto il mondo, i partiti politici hanno un numero sempre minore di iscritti e le minoranze militanti con un forte collegamento con la platea degli iscritti possono avere un peso specifico notevole all’interno della struttura di un partito ma in realtà, per forza di cose, sono meno rappresentative di un tempo del resto del paese.
In Grecia, con il tre per cento mancato da un movimento che valeva un quarto dei parlamentari di Tsipras, il cortocircuito lo si è potuto osservare in modo plastico e lo stesso ragionamento e lo stesso principio oggi non possono che valere per Matteo Renzi, arrivato a guidare il Pd del 40,8 per cento (altri tempi) dopo essere stato segretario con una percentuale inferiore al 50 per cento nelle consultazioni tra gli iscritti e una percentuale superiore al 60 per cento nelle consultazioni aperte. Ma il fatto che nel nostro paese, a sinistra, siano sovrastimati gli elettori ideologici – che votano cioè più per ragioni ideali di fede politica che per ragioni legate squisitamente ai propri interessi – lo si desume soprattutto da un dato significativo sfuggito all’attenzione: il Pd, in Italia, ha un numero di iscritti che si aggira attorno alle 300 mila unità ma allo stesso tempo ha un platea di simpatizzanti che ha accettato di offrire il proprio due per mille al partito che numericamente vale quasi il doppio degli iscritti. Questo non significa che Renzi possa fare automaticamente a meno di quella porzione del partito più ideologica e legata all’apparato (i casi Liguria esistono e sono rischiosi). Significa però che qualora dovesse risultare incompatibile la coesistenza tra le due sinistre del Pd, in presenza di una divisione generata non da quisquilie ma da questioni legate a riforme toste, serie e ad alto contenuto identitario, chi ci perderebbe di più non sarebbe Renzi ma sarebbe la sinistra dei centauri. Si dirà: ma che possibilità ci sono che Renzi schiacci il pulsante “Opzione Tsipras” per liberarsi della sinistra ideologizzata? E qui è il punto. Nonostante le parole soffici e consolatorie offerte lunedì pomeriggio in direzione dalla classe dirigente del Pd sul percorso che dovrà seguire la riforma costituzionale, Renzi sembra essere intenzionato a utilizzare il voto sul ddl Boschi come primo terreno utile su cui sperimentare lo stesso nuovo equilibrio messo in campo da Tsipras lo scorso 11 luglio, quando il Parlamento greco votò il memorandum di accordo con l’Europa sancendo la nascita di una nuova maggioranza e la fine dell’unità della sinistra. In quell’occasione furono 17 i voti contrari che arrivarono da Syriza e cento i voti che arrivarono dalle opposizioni.
[**Video_box_2**]Nel caso italiano cambieranno le proporzioni ma il tentativo di Renzi è simile a quello di Tsipras: formare attorno al sì o al no alla riforma delle riforme una nuova maggioranza potenzialmente indipendente dalla sinistra dei centauri. Renzi, a differenza di Tsipras, non ha ancora un sistema sostanzialmente monocamerale e non ha ancora una legge elettorale maggioritaria come quella che esiste in Grecia – paese in cui la quasi totalità dei seggi necessari per governare è stata assegnata a un partito che non è arrivato neppure al 36 per cento, e non si capisce cosa aspettino il professor Zagrebelsky e la dottoressa Spinelli e l’onorevole Maltese per incatenarsi a piazza Syntagma urlando aiuto aiuto, il regime, la dittatura, moriremo tutti, presto, dateci un appello. Renzi questo mix non lo ha ancora. Ma una volta approvata la riforma costituzionale e una volta registrato il grado di consenso del paese attraverso il referendum sulla riforma costituzionale avrà tutto quello che gli serve per trasformare in realtà l’opzione Tsipras e tentare di raggiungere lo stesso risultato del collega greco: ottenere in Parlamento più seggi di prima dopo aver gentilmente accompagnato fuori dal partito la sinistra dei centauri. Scissione & liberazione. E si capisce bene che Renzi sorrida quando dice, come ha fatto lunedì in direzione Pd, che chi di scissione ferisce di solito di elezioni perisce.