Non c'è controllore o legge speciale che rottami la corruzione
Secondo la Guardia di finanza, il danno erariale prodotto da funzionari pubblici corrotti o anche solo incautamente negligenti è valso, tra il 2014 e i primi sei mesi del 2015, 5.700 miliardi. Un po’ più dell’Imu e della Tasi messi insieme. Per avere un altro termine di paragone, la spending review per il 2016 dovrebbe valere, secondo le ultime voci dal ministero dell’Economia, tra i 6,5 e gli 8 miliardi. Il rapporto della Guardia di finanza anticipato ieri dal Corriere della Sera racconta non solo di corruzione, concussione, truffa, turbativa d’asta, appropriazione indebita o abuso di ufficio, ma anche di disservizi, lassismi, sprechi. Fotografa insomma quella irritante mala gestio delle risorse pubbliche che è la fonte principale di un senso di insofferenza e sconforto destinato a protrarsi fino a quando l’Italia sarà percepita come terra di corruzione e impunità.
Ma quando è il “fino a quando”? Perché quella fine resta sempre una linea di un lontanissimo orizzonte? Sebbene il chiodo dell’ultimo scandalo di corruzione e malaffare scacci nella nostra memoria i precedenti, sappiamo che Mafia Capitale, ad esempio, non è un fenomeno isolato. Anche alle memorie più corte risaliranno alla mente almeno il Mose di Venezia o l’Expo di Milano, per citare i casi più eclatanti.
Vicende che sintetizzano reati molto diversi ma accomunati da un elemento: l’esistenza di spazi di intervento e discrezionalità pubblici che alimentano le occasioni di illecito, o anche solo di cattiva gestione di risorse non proprie.
La corruzione, l’abuso di ufficio, le consulenze inutili, l’accaparramento di soldi pubblici non potrebbero esistere se non esistessero servizi da gestire o affidare, concessioni da confermare, autorizzazioni da rendere, consulenze da richiedere: se non esistessero, in altri termini, zone franche di discrezionalità amministrativa e politica. E più sono le attività di cui l’amministrazione viene caricata, più le occasioni, naturalmente, aumentano.
Un mondo in cui la Pubblica amministrazione fa meno cose non sarebbe un mondo di probi. Esisterebbero naturalmente altri reati, esisterebbe la disonestà, ma sarebbe una disonestà non adagiata nella pancia del potere pubblico e arricchita coi soldi di tutti. Gli immigrati – ha detto Carminati – sono un investimento più sicuro della droga, perché per i primi non c’è mercato – quand’anche illegale – ma la sottana di un’amministrazione aggiudicatrice. Che fare, dunque, per avvicinarci alla linea d’orizzonte del buon andamento della Pubblica amministrazione?
Per lo più, si odono i ritornelli delle leggi speciali, dei maggiori controlli, di maggiori strumenti per un intervento più deciso dello stato per bonificare le amministrazioni. E così, via con una autorità anticorruzione, via con la riforma della prescrizione, via con gli obblighi di trasparenza, i codici etici, le incompatibilità e tutto l’ambaradan normativo per moralizzare la funzione pubblica.
Eppure, l’accatastarsi di norme e controllori non rischia di essere solo inutile, ma persino dannoso.
La corrispondenza di due indicatori, relativi uno alla corruzione e l’altro alla qualità della regolazione, intrinsecamente connessa anche alla quantità, parla da sola: più l’ambiente normativo è incerto, farraginoso, stratificato, oscuro, più si annida il malaffare e l’opacità dei comportamenti (vedi il grafico qui accanto, un’elaborazione dell’Istituto Bruno Leoni su dati della Banca mondiale, in rosso l’Italia).
[**Video_box_2**]Non è con nuovi reati, maggiori controlli, leggi speciali o nuovi giudici che si potrà iniziare a tagliare le radici della cattiva gestione delle risorse erariali.
“Nessun uomo di governo – chiosava Gogol – anche se fosse il più saggio di tutti i legislatori e i governanti, è in grado di rimediare al male, per quanto limiti nelle azioni i cattivi funzionari, facendoli controllare da altri”. Ogni sforzo sarà pressoché inutile, fino a quando non verranno ridotti i luoghi e gli spazi di clientelismo e corruzione e quindi moltiplicati quelli sottratti al placet burocratico. Ossia fino a quando non verranno disidratati i rami del potere amministrativo su cui si innesta l’affarismo e bivacca l’incuria.