I numeri del Pd dello scorso anno spiegano come sarà il Pd del futuro
Facciamo un piccolo gioco, ma scientificamente rigoroso, con i voti, visto che di elezioni – minacciate o incombenti, prossime o alla scadenza naturale, nazionali o di altri paesi, tipo Grecia – comunque si parla e si parlerà. Prendiamo le tre principale liste delle ultime elezioni europee: il Pd, col 40,8 per cento dei consensi; il Movimento 5 Stelle, con il suo 21,2, e Forza Italia col 16,8 per cento. Ok, ci sono stati spostamenti di voti da un partito all’altro, ce lo hanno detto e spiegato gli esperti di flussi elettorali. Il fenomeno è stato descritto: chi vince, chi perde e a spese di chi. Ma c’è qualcosa di più sintetico ed esplicito che può essere estratto dai dati elettorali mettendo a confronto le percentuali ottenute dai tre partiti nelle 110 province italiane. Vengo subito al dunque, col risultato più importante: la correlazione tra le percentuali di voti ottenute dal Pd e da Forza Italia nelle province italiane, che è pari a -0,77. Una correlazione negativa, che sta a significare andamenti divergenti – fin qui non è che si sia scoperto gran che. Se però consideriamo che il massimo raggiungibile da una correlazione è pari all’unità (+1 se la correlazione è positiva, -1 se la correlazione è negativa) le cose diventano assai più esplicite, perché -0,77 indica una correlazione al tempo stesso negativa e di forte entità.
Il voto ai due partiti nelle 110 province italiane considerate ciascuna nella sua singolarità (di risultati elettorali) non soltanto diverge, nel senso che quando è alta la percentuale del Pd è bassa quella di Forza Italia e viceversa, ma diverge in modo netto, forte e, alla luce dei risultati nazionali, pure univoco, in quanto non c’è un viceversa: quando è alta la percentuale del Pd è bassa quella di Forza Italia, ovvero, mutatis mutandi, quando è bassa quella di Forza Italia è alta quella del Pd. Ma non c’è un tragitto opposto, un rovesciamento dei termini della questione. Forza Italia ha pagato il prezzo al Pd di Renzi praticamente in tutta Italia. Un prezzo l’ha pagato pure Grillo, per la verità. Anche se grosso modo della metà di quello del Cavaliere. E infatti la correlazione Pd-Movimento 5 Stelle è di -0,39, negativa e di media entità. Anche in questo caso c’è una tendenza opposta, tra le percentuali ottenute nelle province italiane dai due partiti, ma non così opposta come quella tra Pd e Forza Italia. L’irriducibilità tra Movimento 5 Stelle e Pd è molto superiore (siamo autorizzati a stimare: superiore del doppio) a quella che c’è tra Forza Italia e Pd, ma nient’affatto assoluta. Infatti, che la correlazione negativa di FI col Pd sia quasi l’80 per cento del valore massimo significa che il voto nelle province ha visto uno spostamento pressoché univoco dalla prima al secondo, segnale evidente di passaggio dall’una all’altra formazione, ovvero di “non irriducibilità” dell’elettorato di FI rispetto a quello del Pd. Con buona pace di Grillo, però, neppure il (potenziale) elettorato pentastellato s’è dimostrato così impermeabile al richiamo del renzismo se la correlazione negativa è stata pur sempre il 40 per cento del valore massimo.
Elezioni europee, si dirà, elettorati in piena mobilità, se non proprio in libera uscita. Forse, ma attenzione alle sottovalutazioni. Si prenda per esempio il valore della correlazione tra le percentuali di voti ottenute nelle province da FI e M5S, ch’è pari a +0,25: positiva e di bassa entità, dunque. Come a dire che le due liste hanno mostrato una (quasi) indifferenza reciproca e che hanno vivacchiato entrambe (non fosse così la correlazione non sarebbe di segno positivo) sulle – e delle – poche briciole lasciate dal Pd. Stando ai sondaggi oggi è Grillo che si avvantaggerebbe delle sempre possibili debolezze di Renzi. I risultati delle Europee, letti in chiave di correlazione tra le due liste di Grillo e di Berlusconi, suggeriscono che potrebbe esserci una spartizione se Forza Italia non si salvinizzasse ma ritrovasse una sua meno zigzagante identità. Una spartizione conseguente, va da sé, a una vera concorrenza elettorale tra le due formazioni. Non è pacifico che, ove le briciole diventassero così copiose da non essere più tali – briciole, solo briciole – ad approfittarne sarebbe il solo M5s. Ma anche sul cambiamento di stato da briciole a corposa sostanza, nell’eventuale scivolamento di Renzi nei consensi, io ci starei bene attento, fossi in Grillo (e Berlusconi). Il perché mi permetto di farglielo notare ancora alla luce dei risultati del Pd alle Europee.
[**Video_box_2**]Forse il più grande risultato politico ottenuto nell’occasione dal Pd di Renzi è stato, piuttosto stranamente, anche il più sottovalutato. Le elezioni Europee hanno fatto di questo partito quello che non era mai stato neppure il Pci di gloriosa memoria: un partito nazionale nel senso pieno della parola, nel senso di diffuso (non radicato – abusatissima forma verbale mai soddisfatta di sé, politicamente parlando – solo diffuso – e scusate se è poco) in tutte le regioni e province d’Italia. Il Coefficiente di variabilità del Pd misurato sulle 110 province italiane è stato del 18 per cento del suo risultato elettorale nazionale, contro il 23 per cento del M5S e il 27 per cento di FI rispetto ai loro corrispondenti risultati nazionali. Da partito meno nazionale di tutti, in quanto più concentrato territorialmente, a partito più nazionale, anche nel senso di territorialmente meno variabile, non solo di più grande, di tutti.
Alle tradizionali roccaforti, che tali sono restate, si sono aggiunte numerosissime piazzeforti: basti pensare che solo in una provincia il Pd non ha raggiunto, ma soltanto sfiorato, la soglia del 30 per cento, quella di Isernia. Cosicché la guerra andrà combattuta piazza per piazza, provincia per provincia, per strappare al Pd di Renzi sostanza, oltre che briciole. Impresa diventata, anche per questo motivo, doppiamente impegnativa per i suoi avversari, Grillo compreso.