Ma quanto si diverte Calderoli, stregone degli emendamenti
Roma. “Vabbè, ma scherza”, si pensava quando il senatore Roberto Calderoli, leghista storico e mefistofelica maschera forse burlona, minacciava valanghe di emendamenti – “cifre a sette zeri!” ma anche “cifre a meno sette zeri!”, milioni o il nulla, chissà, ed era questo l’indovinello sbandierato da colui che faceva sul serio senza sembrare serio, ché il vicepresidente di Palazzo Madama si riservava il margine d’azione e di sorpresa sulla riforma della Camera alta. “Macché accordo nel Pd, tutta commedia, questa è la mia Resistenza”, era la dichiarazione pronta per il telegiornale della sera, buttata nell’agone dopo aver presentato al pubblico basìto la mirabolante invenzione di un programma internettiano da fantascienza, il moltiplicatore di emendamenti che gioca da solo con i sinonimi e i contrari, le congiunzioni e le negazioni, le frasi e le virgole e i punti e virgola. E non si sapeva più se eleggere profeta di futuribili sciagure lui – il Calderoli demonio dagli occhi di bragia – o l’altro, il Beppe Grillo che da un immaginario anno del giudizio 2042 si faceva vedere sul suo blog travestito da ottantenne, in piena vendita di indulgenze (votaci, seguici, e tutto verrà cancellato, pure Equitalia). Solo che poi Calderoli, l’uomo più vituperato in pubblico per via della ex legge elettorale tenuta a battesimo (il cosiddetto – anche da lui – “Porcellum”) e per le uscite barbariche da Lega vecchio-stile sull’universo mondo (islam, gender e immigrati), stava diventando, a differenza di Grillo, il più amato in privato (e in Senato). Nei giorni duri della riforma costituzionale, infatti, Calderoli veniva da un lato mezzo condannato e mezzo salvato dall’Aula (sì all’autorizzazione a procedere per diffamazione nei confronti dell’ex ministro Cecile Kyenge, definita dal senatore leghista “orango”, e no all’autorizzazione a procedere per istigazione all’odio razziale), ma allo stesso tempo diventava la segreta arma e il segreto cruccio di chi ci sperava proprio, nell’azione ingolfante dei mille, duemila, anzi centomila, anzi un milione anzi ottantadue milioni e rotti di emendamenti – “ho superato me stesso, sono quasi certo di aver battuto tutti i record italiani e mondiali di emendamenti depositati”, diceva ieri mattina il Calderoli rubizzo dei giorni di battaglia, quello che nel libro “Piccoli uomini-maschi ritratti dell’Italia d’oggi” di Lidia Ravera veniva descritto con “occhi blu” e “sopracciglia rigogliose”, “collo pesante” e “naso regolare”, uno che, scriveva la scrittrice di “Porci con le ali”, non sarebbe stato “malaccio”, se non avesse insistito così a lungo a vestirsi come si veste.
E se invece stesse lavorando per Renzi?
E però quelli che ci speravano, negli emendamenti a palate, venivano subito e sottobanco riportati sulla terra dai complottisti di ogni ordine e grado: “Ma non avete capito che così poi Pietro Grasso, il presidente del Senato, è costretto a mettere la ‘ghigliottina’ per far fuori la valanga calderoliana anti-riforma e che a quel punto voi sarete nel gioco del Pd di area-maggioranza, che ha salvato Calderoli dalle accuse peggiori per poi arrivare a questo punto?”. Che fosse vero, falso, un gioco delle parti o la realtà, qualcosa non tornava, a chi già vedeva fantasmi acquattati tra le boiserie di Palazzo Madama: “E allora come te lo spieghi Corradino Mineo?”, si domandavano gli ex complottisti improvvisamente votatisi al realismo scettico. “Se uno della minoranza fa così allora forse non c’è nessun giochetto”, era uno dei retropensieri collettivi dopo che il senatore pd e dissidente anti-renziano (Mineo, appunto) aveva dichiarato alla luce del sole, e al Corriere della Sera, che “Calderoli non doveva finire a processo” per la frase pur “orribile” sull’ex ministro Kyenge. “Non era istigazione alla violenza”, diceva Mineo, convinto che tutto potesse finire “con le scuse in Aula” di Calderoli a Kyenge. Solo che era tardi, e la Rete già si scatenava: “Razzista!; “leghista!”, e molti non ci capivano più nulla: “Se Mineo salva Calderoli, chi sta con chi?”. E mentre Calderoli, il leghista stimato da Luciano Violante e da Anna Finocchiaro (poco più di un anno fa, al primo giro della riforma, il vicepresidente del Senato leghista e la presidente dei senatori pd si aggiravano sorridenti con la bozza di accordo in tasca), l’ex ministro Kyenge, ora eurodeputata, in direzione di partito faceva capire di non gradire alcuna forma di appeasement: “Salvando Roberto Calderoli il Pd ha dato uno schiaffo ai suoi valori”, era la sentenza. Ma nel Pd d’altro si stavano preoccupando.
Fondamentalmente né dell’uno né dell’altra, visto lo stato dei rapporti con la minoranza vagolante nel dubbio: essere o non essere fino in fondo anti-renziani? E nel giorno in cui il dubbio rientrava del tutto, Calderoli riemergeva dal suo studio, con il ghigno dell’anno precedente, e cioè di quando diceva, a favore di taccuino e telecamera, “io relatore? E’ come dare la pistola a un killer”, e il sopracciglio aggrottato si spianava dalla soddisfazione del coup de théâtre: eccoli, gli ottantaduemilioni di emendamenti, non si sa bene che cosa farsene, forse, ma tant’è.
Sulla scena, per una mattina, non c’era, incredibilmente, la “ritrovata unità” della minoranza pd ma lui, l’uomo che aveva per anni detto cose indicibili a opposizioni, rom, clandestini e categorie arcobaleno, e che oggi viene esaltato come “stratega d’aula”. E’ un chirurgo (“chirurgo plastico”), dicevano di Calderoli i primi leghisti anni Novanta, per presentare a Roma quell’omone bergamasco che diceva di amare i boschi e i lupi al pari delle cravatte verdi di Umberto Bossi, e nessuno ancora poteva immaginare che il chirurgo, molti anni dopo, da ministro per la Semplificazione, si sarebbe piazzato davanti alle tv (marzo 2010) per dare fuoco a un muro di scatole contenenti 375 mila provvedimenti legislativi a suo avviso inutili. Stava lì, Calderoli, con tutti quei cartoni, e con una specie di piccone e la fiamma ossidrica (“la carta non si brucia, si ricicla”, diceva preoccupato l’ecologista Paolo Cento, mentre i pompieri gettavano letteralmente acqua sul rogo). Stava lì, Calderoli, a bruciare dimenticate leggi su “coccinelle negli agrumi” , “lotta alle cavallette” o “indennità di bagaglio per le bardature dei cavalli”, questo raccontavano i cronisti, increduli di fronte alla nuova placidità del Calderoli spiritato che negli anni precedenti, da ministro per le Riforme, non solo si era fatto padre del Porcellum ma anche della tentata rivoluzione federalista (poi bocciata da referendum popolare), ancora oggi rivendicata a suon di “quella sì che era una riforma scritta bene”. E non ci si capacitava che potesse anche essere a tratti così ridanciano, il Calderoli accusato di aver scatenato una crisi diplomatica per aver indossato durante un’intervista a un telegiornale una t-shirt con vignetta su Maometto stampata a tutto campo, nei giorni terribili della guerra alle vignette olandesi sull’islam. Successivamente c’era stato un corteo davanti al consolato italiano a Bengasi, inizialmente ritenuto di protesta contro quel gesto; erano scoppiati disordini ed erano morti dei manifestanti, e anche se poi si s’era scoperto che il corteo era nato non in funzione anti-Calderoli ma per altri motivi, in molti avevano criticato l’allora ministro, “provocatore sull’islam”, tanto che si era giunti infine alle dimissioni.
Pazzo di “Bravehart” e di Lucio Battisti
“Dottor Jeckill e mister Hide”, così lo chiamavano, allora, i senatori colleghi, nemici-amici di Rifondazione comunista (per esempio Rina Gagliardi). E Calderoli alimentava la doppiezza, quando dismetteva i panni di leghista storico, bossiano di ferro ma pure fan di Roberto Maroni alla presidenza della Regione Lombardia: sono pazzo del film di “Bravehart” e di Lucio Battisti, raccontava con l’aria dell’ex ragazzo di provincia nelle interviste (su Sette, a Vittorio Zincone, nel 2012), proprio come l’anno scorso confidava al Fatto (a Carlo Tecce, agosto 2014) di trovarsi nel bel mezzo di un periodo di transizione, riflessione, ripensamento, al punto da vagheggiare la cosa che tutti vagheggiano quando sono i crisi: basta, cambio vita e magari apro un ristorante (“tartufi, carni, vini, prezzi modici”). Stupiva, allora, che Calderoli potesse anche tramutarsi d’incanto nell’uomo posato che si raccontava a due voci con la compagna Gianna Gancia (a Cristina Giudici, nel libro “Leghiste”, ed. Marsilio), e che si descriveva come fidanzato romantico che a suo tempo aveva conquistato la sua bella riempiendo la stanza di un castello di uova di Pasqua – e Gancia, allora giovane quadro leghista, poi anche presidente della Provincia di Cuneo, a quel punto capitolava (i due si sono sposati a inizio settembre 2015, dopo quindici anni).
[**Video_box_2**]Evidentemente, però, il mister Hyde era lì che sonnecchiava, pronto a quello che ieri l’Unità definiva “il Calderoli show”, con il senatore leghista barbuto come neanche più Fidel Castro e protagonista di quello che il sottosegretario alle Riforme Luciano Pizzetti chiamava “regno dell’assurdo”. “Gli emendamenti possono andare e venire, aspetto di vedere quelli della maggioranza e quando saranno visibili dirò se sono soddisfatto o meno e se c’è la totale o parziale possibilità di ritiro”, diceva l’uomo della grande moltiplicazione, già disponibile, così pareva, a dire davvero “abbiamo scherzato”.