Il realismo paradossale di Obama
New York. All’Assemblea generale dell’Onu Barack Obama ha intonato un vibrante peana della democrazia, dei valori liberali, della cooperazione e del multilateralismo, un discorso appassionato e ad alta carica ideale, accompagnato dalla conseguente condanna dell’uso della forza, della politica internazionale concepita come “gioco a somma zero”, riferimenti generali ma diretti chiaramente a Vladimir Putin, avversario globale con il quale ha incrociato le lame al Palazzo di vetro, salvo poi essere costretto a sedersi a un tavolo nella tarda serata italiana di ieri per discutere di Siria, il crocevia dell’instabilità globale. Com’era prevedibile, nel suo intervento Putin ha detto che è un “errore enorme non cooperare con il governo siriano contro lo Stato islamico”, e ha rilanciato l’idea di una vasta coalizione internazionale contro il Califfato, missione da mettere in pratica sotto il cappello di una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Il discorso di Obama è uno di quelli che da anni il presidente estrae puntualmente dal cilindro ogni volta che è in difficoltà. Ha lanciato strali d’occasione contro il tiranno Bashar el Assad che getta “barrel bomb” e usa armi chimiche contro il suo popolo, chiarendo che l’America non cederà nemmeno di un millimetro al “principio per cui dovremmo sostenere dittatori come Assad perché l’alternativa è anche peggiore”, quello sul quale fa leva Mosca.
Tornare allo status quo ante non è accettabile, ha spiegato Obama, e l’America lavora per favorire un governo di transizione verso un futuro pacifico e senza Assad. Obama ha enunciato una particolare – e anche paradossale – forma di “realismo”, una sua versione liberale e multilaterale, guidata dai princìpi ma disposta a sedersi a un tavolo con chiunque possa contribuire al risultato della pacificazione. “Il realismo ci impone di raggiungere un compromesso ma suggerisce anche un futuro senza Assad”, ha spiegato Obama, muovendosi su un crinale fra ideali e calcoli politici. Alla base della dottrina c’è l’idea che la dittatura non è soltanto malvagia in sé, ma è anche instabile, il male che procura è incommensurabile alle garanzie che concede. Si tratta di un’apertura alla trattativa diplomatica, ma con riserva: il discrimine è la legittimità dell’interlocutore, ed è interessante notare che al summit antiterrorismo organizzato dagli Stati Uniti e che si riunisce oggi a New York, Russia e Iran non sono stati invitati, ma l’Egitto di al Sisi spicca come il partner più affidabile della regione. La diplomazia “è dura, e i risultati talvolta sono insoddisfacenti e impopolari, ma a volte i leader devono prendersi dei rischi”, ha detto Obama, che ha indicato l’accordo nucleare con l’Iran come l’esempio da seguire. Un bel rischio – appunto – usare come modello un azzardo strategico che andrà giudicato nei prossimi dieci anni. L’esempio negativo, invece, è quello della Libia, dove la “nostra coalizione avrebbe potuto e dovuto fare di più per riempire il vuoto che ci siamo lasciati alle spalle”.
[**Video_box_2**]In nome del suo realismo, opposto a quello cinico e muscolare di Putin, Obama non può sostenere la violazione della sovranità di uno stato, come successo in Ucraina, e in nome dello stesso principio continua a fare pressione su Mosca con sanzioni che non hanno lo scopo di “isolare” ma di riportare la Russia nel legittimo perimetro della comunità internazionale. E intanto incontra Putin per discutere della crisi ammettendo implicitamente che è l’America, e non la Russia, il partner debole, quello che ha più bisogno di trattare. Anche il New York Times ha ridicolizzato il goffo tentativo della Casa Bianca di spiegare che è Putin a “mendicare disperatamente” il negoziato. Obama ha dalla sua gli ideali e i princìpi della democrazia liberale, Putin ha la logica della forza e Assad, il tiranno che “ha i giorni contati”, come ha detto Hillary Clinton 1.167 giorni fa.
Equilibri istituzionali