Bersani nella terra di mezzo
Nel 2013 aveva tutti i numeri dalla sua parte. Poteva vincere le elezioni. Riuscì nella straordinaria impresa di non vincere e non perdere, e fu scaraventato in una Terra di Mezzo dove gli sembrò possibile un accordo di governo con l’impossibile: Beppe Grillo. Con questo disegno prometeico in testa, catapultò due mezze figure – Grasso e Boldrini - in vetta al Senato e alla Camera. Errore blu. Da quel momento tutto quello che poteva sbagliare lo sbagliò: mise in piedi un governo con poca gasolina e senza un pilota al volante (Enrico Letta), assecondò una gestione del partito con molti caminetti ma senza legna da ardere. Risultato: Renzi avanzò come la cavalleria di Alessandro Magno contro Dario di Persia. Matteo in sella a Bucefalo, Bersani in fuga in Lambretta.
Bersani ha una saggezza carsica, ma digerisce i problemi con lentezza, deve vedere sempre il pericolo in faccia per convincersi che quella tal cosa sta succedendo proprio a lui. Spesso non basta neanche la luce del treno in fondo al tunnel per convincerlo a cambiare strada. La storia dimostra che si fa prendere dalla passione per i crash-test. Solo ora (forse) sta cominciando a capire la natura di Renzi. Non è solo una questione di prove di forza, ma di velocità e coraggio. Il segretario del partito è uno che si butta in acqua “e vediamo cosa succede”, l’ex segretario invece si definisce “un uomo di fiume” e il corso d’acqua che (ri)conosce Bersani è lento, maestoso, paziente, forte, ma non insidioso, capriccioso e affamato come il mare in burrasca del renzismo. Durante la trattativa per l’elezione del Presidente della Repubblica – quella che oggi Bersani considera un esempio virtuoso – lui e i suoi vedevano “Nazareni” in agguato anche dietro la foto di Che Guevara appesa ai muri della sede del partito. “Non voteremo il candidato di Berlusconi”. “Non poniamo veti, ma in quarta votazione non ci portino un nome scelto nel chiuso del Nazareno”. Parole di Bersani, fine gennaio del 2013. Non aveva capito un fico secco di quel che stava accadendo: Renzi cercava una posizione autonoma, giostrando tra il Cavaliere (che pensava di poter profittare della spaccatura nel Pd) e la minoranza dem in fase cavallo di frisia. Quando Renzi propose il nome di Mattarella, tutti rimasero appesi al soffitto come baccalà sotto sale: uno a cui Bersani non poteva dire no, uno a cui Berlusconi non poteva dire sì. Renzi scelse il partito, ma soprattutto se stesso.
L’accordo sulla riforma del Senato ha lo stesso schema della “Stangata del Quirinale”: melina del capo, treccine ad alto voltaggio di Maria Elena Boschi, sguardo severo di Anna Finocchiaro, diplomazia lottiana, drammatizzazione in direzione, faccia a faccia, “stai sereno”, emissari che partono, “busta A e busta B”, prendere o lasciare. Alla fine la minoranza del Pd ha preso. Punto. Contro Matteo, ma senza un’idea chiara. Stato confusionale messo in mostra in una pagina con doppia intervista sul Fatto Quotidiano. L’ex dissidente Massimo Mucchetti in versione Slow Food: “La politica è anche l’arte del possibile”. L’ex parlamentare ds e costituzionalista Massimo Villone in versione gourmet Micromega: “O si sono fatti imbrogliare da Renzi, oppure si sono prestati a una rappresentazione teatrale”. Sintesi dal Circolo Arci: “Hanno fatto pippa”.
[**Video_box_2**]Potevano fare altro? Sì, la scissione. Evento sognato, ma ad oggi irrealizzabile da quel drappello di oppositori. Non è un’operazione politica compatibile con il dna dell’ex segretario, nato e cresciuto nella cultura del partito emiliano. Bersani lo definì “uno strumento” nel suo libro intitolato “Per una buona ragione”. Correva l’anno 2011, Pier Luigi si confessava con Miguel Gotor e Claudio Sardo, non immaginava l’arrivo di un bulldozer targato Firenze. C’era il partito, “uno strumento”, appunto, c’era un “affezionato della Ditta” e molti voli pindarici, come “costruire l’Italia oltre Berlusconi”. Qualche anno dopo arrivò una campagna elettorale per “smacchiare il giaguaro”. E’ andata come sappiamo. E va come vediamo. “Uno strumento”, il partito. Il laureato in filosofia Bersani avrebbe dovuto leggere con più attenzione Gramsci: “Principe potrebbe essere un capo di stato, un capo di governo, ma anche un capo politico che vuole conquistare uno Stato o fondare un nuovo tipo di Stato: in questo senso, “principe”, potrebbe tradursi in lingua moderna “partito politico””. E’ una nota del 1930 di Gramsci sul Machiavelli, il segretario fiorentino.