Caro Enrico Letta, caro Freccero
I francesi hanno un modo galante e vizioso di realizzare una certa egemonia sull’Europa: scelgono loro, e mettono in palchetto, gli intelligenti degli altri. Nei decenni trascorsi il fenomeno di assimilazione ha voluto dire Strehler per il teatro, Sciascia Pasolini e Tabucchi per il romanzo e l’ideologia, e sono solo degli esempi di esempi. Ma non basta, e qui nasce qualche problema: ci sono anche Carlo Freccero per la filosofia della comunicazione e Enrico Letta per la scuola di politica. Di Freccero dico poche cose perché lo conosco troppo bene. Si è inventato, come la chiacchiera sportiva di cui parlò Eco su “Quindici” tanti anni fa, la chiacchiera televisiva: ne è un campione, e i suoi titoli autorevoli per essere considerato un théoricien del prime time sono quelli che tutti sanno, è stato un allievo di Berlusconi e, una volta allontanato dal patron, è entrato difilato nel martirologio romano, dalla Rai a Beppe Grillo, ma sempre inseguito dal mito parigino e bourdieusiste della sociologia d’assalto. Come boulevardier è di Savona, come direbbe il nostro amato Maurizio Milani, ma Savona è anche genetrix di un Grasso (principe della critica) e di un Ricci (tv applicata, con soldi e spot e risate in famiglia), quindi tutto a posto: Carlo è come minimo un filosofo.
Ma prendere Enrico Letta come professore di politica nella fatidica suola di Science Po è uno scherzo, un gioco di società, una ostentazione di apparenza di cui è complicato stabilire il sapore, se di côterie o di beffa. Letta merita tutto quel che gli accade, intendiamoci bene. Quando aveva trent’anni o poco più questo giornale, per la firma svelta e acuta di Mattia Feltri, lo inserì senza tentennamenti tra i trentenni che “hanno combinato qualcosa”. Sono passati quasi vent’anni e Letta, ormai cinquantenne, ha studiato tanto, questo è vero, si è applicato, come dicono i professori, e ha avuto delle grandi occasioni. Ma che uso didattico possa ora farne, è per lo meno discutibile.
Quando il sistema si bloccò, dopo le elezioni del 2013, il presidente della Repubblica fu rieletto, inaudito, per un secondo mandato. E Letta era il numero due dello sconfitto Bersani, al quale era toccato in sorte cercare di formare un governo con Grillo e Casaleggio che lo avevano sbertucciato, più che umiliato. Come numero due del vincitore che aveva perso, Letta fu chiamato da Giorgio Napolitano, dopo una solenne lezione parlamentare sul “principio di realtà”, a formare un governo di unità nazionale. Ciò che fece, con cinque ministri indicati da Berlusconi, alcuni dei quali suoi amici di lobby. Passa qualche mese di stranezze. Letta dice che non vede l’ora di guidare un governo bipolarista, e svaluta il senso dell’operazione per cui era stato incaricato. Invece di legarsi allo zio Gianni, e di cercare di dare un senso compiuto a un progetto di ripresa dell’economia e del lavoro, il giovane Enrico si dà da fare per la scissione nel partito berlusconiano suo alleato. Quando arriva la condanna del capo, è fatta: dichiara che una squadra più piccola, con i cinque ministri trasmigrati nella maggioranza e Berlusconi andato all’opposizione, è meglio della larga coalizione. Chi se ne impipa della sorte del Cav., mi basta e avanza il suo segretario particolare Alfano. E dice di voler lavorare con il cacciavite per risolvere i problemi. Nel frattempo, il giovanissimo Renzi minaccia il suo ritorno come capo del Pd, lavora di ruspa. Letta che fa? Non si schiera nelle primarie, e propone a Renzi, nel frattempo trionfalmente eletto, un curioso patto: io governo e aggancio la ripresa, tu mi reggi il bidone del partito, grazie. “Sta’ sereno” è la risposta del fiorentino (Letta è pisano).
[**Video_box_2**]Passa un po’ di tempo e Letta si vede passare sopra il treno del patto del Nazareno: Renzi fa un accordo di riforma della legge elettorale e della Costituzione con Berlusconi. Forse a quel punto Enrico intuisce che le cose potrebbero mettersi male, forse, ma con Alfano e il cacciavite si sente forte abbastanza. I giornali lo blandiscono, è il re degli Ambrosetti. Sappiamo come finì. Con il governo Renzi fondato sul patto con il Cav. eccetera. A quel punto Enrico va in puzza, come si dice a Roma, e toglie platealmente il saluto a Matteo, e profetizza apocalittico: sarà un disastro. Ora è passato ancora un po’ di tempo, Renzi ha le sue difficoltà ma tutto sommato se la cava. La parte più facile del suo ambizioso programma è stata dissellare Enrico, e ci voleva dall’inizio poco a capire che cosa sarebbe successo. La disinvoltura e la volontà di potenza contro una burbanzosa, pretenziosa e insipida squadretta di lobbisti: non c’era partita. Mi domando se sia di qui, dal “principio di realtà”, che partirà il corso accademico per il quale i francesi, che in un solo Grand Siècle avevano avuto Richelieu Mazarino e il cardinale di Retz, hanno subito trovato una cattedra di prestigio.