Matteo Renzi, a sinistra, allo stadio Artemio Franchi di Firenze in compagnia di Diego Della Valle, patron della Fiorentina calcio

Renzi, lo sport, il potere

Mario Sechi
Attacco e difesa, squadra e individuo, bandiera, inno, orgoglio, fascinazione, racconto, tv, culto di massa. Non solo la Fiorentina. L’epoca renziana spiegata con maglie, palloni e "Tiki Taka"

La Viola. Ci mancava solo quella. Vincere a San Siro. Salire in vetta. Giocando bene, poi. Il fatto non è mai stato irrilevante, ma di questi tempi è decisivo per capire il presente. Perché se il renzismo è fiorentino, Renzi è della Fiorentina. Le squadre di calcio hanno due proprietari: il presidente e i tifosi. I primi passano, i secondi restano. I primi spendono i soldi, i secondi ci buttano l’anima. I primi possono non essere amati, i secondi hanno un amore unico, la squadra. Il presidente è un amore/odio occasionale, la squadra è sempre del cuore. Pensate un po’ a Diego Della Valle in questi giorni: è là sull’Olimpo della serie A, ha passato anni a fare il “rompi” del campionato, a litigare con gli altri presidenti, s’è buttato sul ring del wrestling con la Juventus e ora, proprio ora, ora che poteva godersi il giglio fiorire lassù in cima alla classifica, ora deve smezzare la gloria con quel ragazzaccio che amò, coccolò, consigliò e alla fine non gli diede più retta: Matteo Renzi. Perché la squadra è tua, ma la maglia è dei tifosi. E’ la legge del calcio. Renzi la conosce così tanto bene da averne fatto un rito politico, un passaggio di potere, una cerimonia per iniziati. Eccolo, Matteo con la maglia numero 33 di Mario Gomez. Al suo fianco c’è Angela Merkel, cancelliera della Germania, la squadra campione del mondo. Il calcio ha questo potere infinito, apre tutte le porte, fa diventare “umano” (a volte troppo umano) anche quello che da lontano appare come un cyborg della politica.

 

Lo sa bene Silvio Berlusconi, i cui alti e bassi del Diavolo hanno spesso parabole coincidenti con la sua fortuna politica. Quando il Cav. si occupava davvero del Milan faceva campagna acquisti, disegnava schemi di gioco e in tribuna diceva di un giocatore della squadra avversaria “buono quello”, allora si poteva avere la quasi-certezza che alle elezioni ci sarebbe stato filo da torcere per chiunque. Così domenica scorsa, nel vedere sul prato di San Siro gli schemi di Paolo Sousa, l’accelerazione in corsia di sorpasso di Marcos Alonso e la tripletta da cecchino spietato di Nicola Kalinic, qualcuno ha avuto un incubo. Freddo. Inesorabile. Un ritorno al futuro. Stagione 1993-1994, in campo c’è il Milan di Fabio Capello, la società è guidata dai tre moschettieri: Silvio Berlusconi, Adriano Galliani e Ariedo Braida. Il team manager è Silvano Ramaccioni. Vendemmia straordinaria, un’ottima annata: il Milan vince Campionato, Supercoppa e Coppa dei Campioni. Eccola, quella serata, indimenticabile. Per gli amici e soprattutto per i nemici. E’ il 18 maggio del 1994, stadio di Atene, il Milan affronta il Barcellona di Johann Cruijff. E’ una partita con una trama rossonera, il Milan schiera una formazione da Space Invaders, spara gol come palle da tennis a Wimbledon, vince quattro a zero. Doppietta di Massaro, reti di Savicevic e Desailly. Bang! Passa una notte di baldoria. Arriva l’alba, Silvio Berlusconi prende l’aereo e s’apre un altro scenario. E’ il 19 maggio 1994, il cinquantunesimo governo della storia della Repubblica ottiene la fiducia alla Camera: 366 sì e 245 no. Il Cavaliere in 24 ore conquista due trofei: il calcio e la politica, lo stadio e il Parlamento, la supremazia nel football europeo e il potere in Italia. E’ l’inizio di un ciclo lungo vent’anni.

 

Il destino si diverte a giocare a dadi (e a calcio). E la fortuna non è cieca, ci vede benissimo come la sorella gemella, la sfortuna. Sei a quaranta metri dall’area, calci in porta, segni. Sei sotto porta, facile facile, spedisci la palla in tribuna. Applausi. Fischi. L’èra Renzi è anche questo, la Fiorentina che corre, suda, calcia, fa un calcio spensierato, si diverte e fa divertire. Poi là fuori c’è la vita che dura più di due tempi, pausa negli spogliatoi, novanta minuti, c’è un tempo lungo dove s’intrecciano l’amicizia e il dissidio, la guerra d’attrito tra due personalità sanguigne e affamate di gloria, Della Valle e Renzi. E’ un corpo a corpo da calcio storico fiorentino, in livrea, vestiti di colori sgargianti, arrotolati e scalcianti nella polvere. 

 

 

[**Video_box_2**]Diego ha un sogno politico nel cassetto e un’impresa in cassaforte. Matteo ha un sogno politico in cassaforte e un’impresa da realizzare. Diego ha la Viola. Matteo il Pd. Diego ha la Tod’s. Matteo l’Italia. Sarà un campionato lungo e difficile per entrambi. Una vittoria della Fiorentina farebbe bene a entrambi. Della Valle avrebbe un immaginario da usare per travasare la vittoria nell’anfora del suo non celato sogno politico, Renzi avrebbe intorno l’alone della magia, Firenze pigliatutto. Non Torino, non Milano, non Roma. Firenze terra della gran vendemmia, un’ottima annata dal colore viola e dal retrogusto deciso e dolce. Succederà? Bisognerebbe saper leggere la sfera di cristallo e le vie del pallone sono infinite, ma una cosa è certa: per Renzi il calcio è una passione e uno strumento per tessere amicizie, relazioni. E lo sport una micidiale catapulta piazzata sul campo di battaglia del potere politico. Pochi ci hanno fatto caso, ma le deleghe allo sport che fino ad aprile erano in mano a Graziano Delrio, non sono state più assegnate. Delrio ha lasciato gli uffici di Piazza Colonna per andare a “sminestrare” la brodaglia del ministero dei Trasporti, ma lo Sport non s’è mosso di un millimetro: è rimasto tra le manine da giocoliere di Renzi. Non è un caso, tutto nel Renzistan ha una logica stringente, avvolgente. Lo Sport è esercizio del potere dal centro alla periferia, attacco e difesa, squadra e individuo, bandiera, inno, orgoglio, trasmissione elementare di un’emozione, fascinazione, racconto, televisione e culto di massa. Lasciare lo Sport a una sagoma qualsiasi? Significa cedere rappresentanza, immaginazione, simboli. E se il tuo progetto è il Partito della Nazione, uno dei pilastri della nuova casa con ampio prato verde è lo Sport. Di chi fidarsi? Renzi ha Giovannino al suo fianco. Di lui si fida come pochi. Ne condivide lo spirito aitante, la passione per le cose veloci e rombanti. Sì, lui, Giovanni Malagò, la figura perfetta per quel ruolo, gli ingredienti sono quelli di un vincente all’inizio e alla fine della gara: tombeur de femme, physique du rôle, savoir-faire. Cinquantasei anni, una villa bianca dolcemente sdraiata sulle dune di Sabaudia, Malagò è un quattro cilindri a V, sveglia all’alba, duro lavoro, metodo, attenzione ai dettagli, quelli dove di solito s’annida il diavolo. Giovannino è il proconsole di Renzi per lo sport, il discobolo con un progetto in tasca, coronamento ideale dell’èra renziana: le Olimpiadi del 2024. Roma è là, tra le città candidate, in corsa con Amburgo, Budapest, Los Angeles e Parigi. C’era anche Boston e ora non c’è più. Un avversario in meno. E’ una sfida tra titani, ma è più di una speranza, perché le prime e ultime Olimpiadi in Italia si svolsero nel 1960. Furono giochi felici, con una Roma radiosa, un Villaggio olimpico perfetto, Cassius Clay che vince l’oro nei pesi mediomassimi e Nino Benvenuti nei welter, Berruti primo europeo a infrangere il dominio nordamericano nei 200 metri, Wilma Rudolph, la gazzella nera, che divora la pista dei 100 e 200 metri piani. E poi c’è lui, Abebe Bikila, l’etiope degli altipiani, il maratoneta scalzo. Parte al tramonto, esile, senza un nome ma con uno sguardo da antilope, è poco più di un’ombra che sfreccia nella notte romana e improvvisamente s’illumina e diventa una leggenda quando arriva all’Arco di Costantino e alza le braccia al cielo. E’ la vittoria di un figlio di pastori, dell’uomo scalzo, è la mia Africa che si fa poesia delle Olimpiadi di Roma. Malagò se lo sogna tutte le notti, un epilogo così, con i titoli di coda di un film che lievita e si fa storia. “Da parte del governo confermo il pieno e totale sostegno alla candidatura di Roma” è stato il messaggio dato da Renzi a Malagò che a fine luglio scorso partiva a Kuala Lampur per partecipare ai lavori del Comitato olimpico internazionale. Disegni prometeici? Forse, ma in fondo l’incomprensibilità del renzismo per i “peggioristi”, i rotativizzati del “va tutto male”, i divanisti del pensiero debole a reti unificate, è tutta qui, in quell’energia che a loro appare di volta in volta bizzarra, arrogante, un sopruso del naïf: Renzi ha quarant’anni e pensa che un paese è grande solo se prova a misurarsi con le grandi imprese. Sbaglia? Ci ha provato. Cade? Si rialza. Fu così che il poco più che outsider sindaco di Firenze perse e vinse le primarie nel Pd. Tutto dimenticato.

 

Il legame tra Renzi e Malagò è di quelli nati con il cemento a presa rapida. Ne abbiamo avuto la plastica rappresentazione qualche settimana fa, quando il premier non ha avuto un minuto di esitazione nel volare a New York per assistere alla finale degli US Open tra Flavia Pennetta e Roberta Vinci. Tennis, un’altra ottima annata. Doveva essere a Bari, alla Fiera del Levante, il presidente del Consiglio. A casa del “nemico”, Michele Emiliano, sindaco di Bari con un’idea in testa: fare le scarpe a Matteo. La prima occasione buona gli è andata in buco. Il destino ha preso la racchetta e da fondo campo ha alzato una palla perfetta per uno smash di Renzi: una finale tutta italiana, due giocatrici pugliesi e un palcoscenico mondiale. Irripetibile. Cartolina e “ciao ciao, Emiliano”. “Matteo Renzi’s plans had changed”, informa il sito ufficiale degli US Open. Volare, please. Rieccoli, Matteo e Giovannino, sulla tribuna di Flushing Meadows a godersi lo spettacolo del dritto e del rovescio, della volée e dell’attacco sotto rete, del colpo incrociato. Italy wins! Che forza, il Grande Slam. Mentre Renzi e Malagò gongolano e fanno cheese davanti ai flash e alle telecamere, in patria scoppia una polemica stracciona sulla presenza del premier alla finale. Tragicomico autogol degli avversari, ancora una volta impreparati nel cogliere l’importanza dello sport nell’immaginario renziano.

 

I talk-show non gli piacciono e non ci ha messo molto a dirlo a chiare lettere. Preferisce andare a “Tiki Taka” e, francamente, c’è anche da capirlo. Tra Landini e Pierluigi Pardo io non avrei molti dubbi. A “Tiki Taka” ci andò già da sindaco di Firenze (alle spalle aveva una scenografia con la foto del presidente Napolitano in evidenza) e disse “ricordo un gran gol su calcio di punizione di Antognoni”. Ah, la Viola. Ci è tornato da presidente del Consiglio, qualche giorno fa. La scena è quella di Palazzo Chigi, bandiera europea, tricolore, Renzi in giacca blu, camicia bianca e cravatta rossa. Pierluigi Pardo, sornione, lo cattura, lesto come un gatto selvatico. Chiede al premier com’è stato quel viaggio a New York per la finale degli US Open, “ci racconta l’emozione più forte?”. Matteo entra nella parte di Matteo: “La cosa più bella è lo sguardo di queste due nostre campionesse, queste due giovani donne del sud che hanno scritto una meravigliosa storia italiana, ma le confesso la grande emozione quando l’intero stadio ha tributato un grande applauso all’Italia”. Renzi socchiude gli occhi, diventano due fessure pronte per appoggiare la canna del fucile, gonfia leggermente le guance. Quando lo fa, è nella fase “bischeri, vi ho stracciato tutti e ora vi faccio friggere nell’olio bollente, ma con il sorriso”. E continua: “… perché questo è un successo del nostro paese, è un successo dello sport del nostro paese, del tennis”. Pardo ha già preso tutte le misure della sagoma renziana: “Forse c’è anche una sottovalutazione dello sport”, e c’è “la metafora”. Renzi va a canestro come Kareem Abdul-Jabbar nei Los Angeles Lakers ai tempi di Dan Peterson, mamma butta la pasta: “Io non farei metafore o immagini simboliche, io credo che un paese abbia bisogno di rimettere in ordine i conti, le prospettive e questo è un momento molto buono per noi…”. Oplà, tipi da bar, ecco la politica schizzar fuori dal cespuglio come una volpe rossa, rapida, lo sguardo fosforescente e i denti affilati: “… dopo anni di recessione e di crisi, tutti gli indicatori economici segnano finalmente più… pil, posti di lavoro, export, turismo… poi però ci sono naturalmente delle emozioni…”. E qui siamo all’incasso del piatto sul tavolo da poker, Renzi ha già fregato tutti sul tempo, mentre gli altri guardano le carte lui le ha già cambiate: “… io credo che un paese non stia insieme per delle statistiche, ma sta insieme perché condivide delle emozioni, e sono le emozioni che tanti eventi possono dare”. Altro cambio di passo: “L’Expo che tutti dicevano essere il luogo degli scandali, è oggi una straordinaria occasione di presentazione dell’Italia”. Tranquilli, non diventa soporifero, si riprende subito: “Lo sport però è il luogo delle emozioni per eccellenza”. Sembra di udire la musica di Vangelis in sottofondo: “Lo sport è il luogo in cui ci riconosciamo qualcosa in più che semplici codici fiscali, dei semplici numerini, ci riconosciamo come cittadini animati da passione”. Via la racchetta, inforca la bicicletta: “Fabio Aru ha fatto una cosa straordinaria alla Vuelta, quando mi ha consegnato la sua maglietta – nella quale ovviamente non entro (e rivolto a Pardo: non ci entrerebbe neanche lei”), vedi dei ragazzi che ci rendono fieri d’essere italiani. Pardo, pizzicato sui chili in più, accenna una reazione: “Ma e l’assenza a Bari? E lo spottone?”. Renzi sospira, allarga le braccia, fase martello pneumatico: “Eeeeehhhh… c’è gente che è talmente arrabbiata col mondo da non rendersi conto che ci sono dei momenti in cui un paese deve sottolineare un valore sportivo e basta. Punto”. E a capo. Perché ora c’è la Viola in testa, maremma, c’è la Fiorentina che fa sognare, mette il pepe in ogni conversazione cittadina, elettrizza il popolo. Per capire il fenomeno, bisogna girare in città, osservare le vetrine dei negozi, guardare i motorini che sfrecciano per le vie del centro storico, bardati come ai tempi di Gabriel Batistuta. Hanno il caso viola, con giglio incorporato e là, in viale Manfredo Fanti, dove sorge lo Stadio Artemio Franchi, anche i muri dicono sottovoce che la Fiorentina è tra le favorite per lo scudetto. Toccano tutti ferro. E Renzi non sta nella pelle, l’impresa di San Siro lo ha mandato su di giri e tra un incontro e l’altro alle Nazioni Unite sfodera una serie di battute.

 

Dopo aver incontrato una serie di investitori americani commenta: “Di cosa abbiamo parlato? Della Fiorentina”. E poi “Interisti vi capisco”. Un siparietto diplomatico “L’ambasciatore italiano alle Nazioni Unite e il consigliere diplomatico di Palazzo Chigi sono due interisti sfegatati ieri ho visto che a un certo punto hanno detto dobbiamo andare, abbiamo un bilaterale…”. Vedo arricciarsi il naso e sopraelevarsi le ciglia degli incipriati, i colti, gli intelligenti a prescindere. Bar Sport? Certo che lo è. Renzi è un tipo italiano, fa esattamente quello che fanno gran parte degli italiani: attende la partita per sfottere il vicino di scrivania, il capo, sfottere il romanista Padoan, pensare che Totti è della Roma e anche D’Alema, e tranquilli, questo è anche l’anno della Lazio (corna sopra e sotto il tavolo), e a Palazzo Chigi dicono che all’Inter è tornato Mazzarri. Un capo di stato non si occupa di queste cose? Non conoscono la storia di Firenze. Una storia fatta di giostre, cavalli, giochi, ha anche uno straordinario retroscena legato al calcio, al gioco della palla come cura del dolore, luogo e tempo per esorcizzare la sventura. E’ un episodio che descrive bene il momento della spensieratezza (e del valore) della politica, anche quando è minacciata dall’avanzare degli stivali della fanteria. Correva l’anno 1530, era il 17 febbraio, Firenze era assediata dalle truppe di Carlo V, e i fiorentini si riunirono in piazza per giocare a calcio. Ecco la cronaca del Benedetto Varchi: “Alli 17 i Giovani, sì per non intermettere l’antica usanza di giuocare ogn’anno al Calcio per Carnasciale, e si anco per maggiore vilipendio de’ nemici, fecero in sulla Piazza di S. Croce una partita a livrea; XXV Bianchi, e XXV Verdi, giocando una vitella: per essere non solamente sentiti, ma veduti, misero una parte di sonatori con trombe, e altri strumenti in sul comignolo del tetto di S. Croce; dove da Giramonte fu loro tratto una cannonata; ma la palla andò alto, e non fece danno a nessuno”. Questo è lo spirito fiorentino. Lo sberleffo al nemico. Giochiamo a pallone mentre voi ci levate la libertà. E suoniamo le trombe sul tetto, affinché ci sentiate e ci vediate. Piaccia o meno, che provochi ammirazione o mal di pancia, tra una bischerata e una mossa azzeccata, bisogna sempre ricordare che Renzi viene da qui. Firenze è la sua città, la Viola è la sua maglia. Della Valle è il presidente, la curva Fiesole è il popolo. Il renzismo sgorga da qui: il potere come sport, lo sport come potere.

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