Landini e la rivoluzione da talk-show
Quando ho visto Maurizio Landini sugli schermi di “Agorà” (Rai 3) dire con nonchalance operaista che lui, perbacco, è contrario alla caccia all’uomo aperta dai dipendenti di Air France contro i dirigenti ma, tuoni e fulmini, sarebbe pronto “a occupare le fabbriche per difendere il lavoro”, ho pensato: ci risiamo con la rivoluzione da talk-show, il mondo capovolto in tv. Landini ha le idee chiare: se Xavier Broseta si salva per un pelo dal linciaggio, scavalcando il cancello del quartier generale di Air France, a torso nudo, tutto questo è frutto della diseguaglianza, perché c’è “un grande divario nella distribuzione del reddito che si è allargato sempre di più”. Sarà per questo che al Broseta hanno strappato la camicia. Via il colletto bianco e vai con un bel pestaggio in nome della parità di reddito.
La categoria dei Landinistas in Italia è il gradito ospite dei talk-show, materiale da spettacolo in pixel che esibisce un contorsionismo mentale da “ma però”, un cortocircuito cerebrale che riesce a dissociarsi da ciò che è visivamente scomodo, ma riesce ad associarsi all’idea che la colpa è del capitalismo (sempre malvagio) e dell’imprenditore (sempre avido). Il cervello e la lingua s’accoppiano automaticamente, in tecnologia bluetooth, per cui a una tal domanda è incorporata una tal risposta. Questo serve alla sceneggiatura, fa il copione della trasmissione, esprime nettamente il charachter e la realtà vola allegramente dalla finestra per lasciare il posto alla fiction. I Landinistas sono materiale prezioso, da coccolare, la ciambella di salvataggio degli autori e conduttori. Non chiudono un contratto, i Landinistas, perdono rappresentanza (sindacale e politica) ma un posto in un salotto televisivo per loro ci sarà sempre. Perché i Landinistas sono i più duri tra i “peggioristi”, una tribù italica che ha fatto del “va tutto peggio e per noi dunque va tutto meglio”, una fonte inesauribile di visibilità, potere e reddito.