Marino, ma quale gaffeur
Nello spassosissimo bazar dell’ipocrisia romana gli amici e persino i nemici di Ignazio Marino stanno provando a far passare l’idea che le dimissioni dell’ex sindaco di Roma siano maturate per ragioni legate squisitamente a un cocktail politico i cui ingredienti principali sarebbero più o meno questi: l’appassionante dossier degli scontrini delle carte di credito, le toste accuse dei ristoratori romani, il difficile rapporto di Marino con il Pd, i ripetuti e inspiegabili viaggi all’estero, la difficoltà con cui l’ex sindaco parcheggiava a Roma la sua Panda, le foto con Buzzi e altre questioni rubricate generalmente e generosamente sotto l’espressione “gaffe”.
Il Pd, probabilmente anche per scongiurare che il mezzo passo indietro del sindaco possa trasformarsi in un improvviso calcione sugli stinchi (rifarà una sua giunta? Si ricandiderà alle elezioni?), accetta in queste ore di descrivere Marino semplicemente come il sindaco “gaffeur”. Ma quello che andrebbe messo agli atti una volta per tutte è che la storia del chirurgo genovese ha una sua profondità per una ragione che riguarda ciò che culturalmente rappresenta lo stesso Marino: un mix perfetto di populismo urbano, benecomunismo, rodotàismo, civismo, girotondismo, anti politica e movimentismo da strapazzo. Il suo approccio alla guida di Roma rappresenta un caso di studio importante per capire che chi si limita a issare sul proprio galeone la bandiera dell’onestà di solito lo fa solo per nascondere un difetto di competenza. Ignazio Marinakis è stato soprattutto questo. E la sua buffa epopea è ancora più significativa se si pensa al fatto che senza l’inchiesta su Mafia Capitale la sua esperienza si sarebbe conclusa già molto tempo fa.
Nella minacciosa lettera con cui l’ex sindaco si è dimesso riservandosi di accettare le proprie dimissioni, “Marinakis” ribadisce questo concetto – se nun ce sono io a Roma torna la mafia, daje –, ma è un concetto che stride (usiamo un eufemismo) di fronte a quella che è la realtà dei fatti. Marino, se non fosse ancora chiaro, è il simbolo dei politici che combattono l’illegalità più con il moralismo che con la lotta all’inefficienza. E se c’è un terreno sul quale l’ex sindaco ha mostrato la natura fragile dell’ideologia benecomunista, è senz’altro il carrozzone delle aziende pubbliche romane.
[**Video_box_2**]La corruzione non si combatte con i like sulle pagine Facebook dell’anti Mafia Capitale, ma riducendo lo spazio in cui si può andare a nascondere la corruzione. Si possono alzare molti pollici verso la procura, ma in fondo esiste solo un modo efficace per prevenire la corruzione, e quel modo è ridurre gli sprechi. Il vero debito che paga Marino oggi è questo, non le cenette in trattoria. Per mesi e mesi il termometro perfetto per valutare l’incapacità dell’ex sindaco di Roma ad affrontare i problemi della città è stato l’immobilismo del comune della più importante città italiana sulla centrale degli sprechi della Capitale, alla quale, in due anni di governo, Marino ha fatto il solletico: Atac, la più importante società di trasporto pubblico non solo romana ma italiana, con alle spalle 550 milioni di euro di debito. Marino, scegliendo di non far fallire l’Atac per vendere ai privati la parte sana dell’azienda, ha contribuito ad alimentare una grande spirale di sprechi: a certificarlo è lo stesso ex assessore ai Trasporti di Roma, Stefano Esposito, che il giorno prima di dimettersi ha scelto di inviare all’Anac di Raffaele Cantone, con un gesto insieme onesto ma disperato, una clamorosa lettera che il Foglio ha anticipato ieri sul suo sito. Sintesi: caro Cantone, qui c’è una situazione che la politica non può gestire, gli appalti dell’Atac sono stati per anni gestiti in modo sospetto, pensaci tu. Una storia che è anche l’epilogo perfetto per Roma e il suo sindaco: la politica impotente che si affida ai magistrati per risolvere i problemi che la politica non sa e non vuole risolvere.