Romanzo, climax e dimissioni in un marasma capitale
Roma. Assediato in Campidoglio, alla fine decide di dimettersi senza dimettersi, e insomma lascia ma anche no, rassegnerà le dimissioni “ma ho venti giorni per ritirarle”, dunque mentre annuncia l’addio allude anche al ritorno. E per dodici ore la minaccia di essere sfiduciato dalla sua stessa maggioranza, per Ignazio Marino è stata quasi un divertimento nel quale bearsi pazzoticamente, come il lebbroso che si ficca le unghie nelle piaghe per sentirle meglio: “Sono sotto una aggressività continua”, confessava a un certo punto a un finto Renato Zero che intanto lo chiamava al cellulare e sghignazzando trasmetteva tutto alla radio. “Stiamo scuotendo poteri e privilegi che hanno retto per molti anni questa città”, gli diceva. E mentre Matteo Orfini lo implorava di dimettersi “per carità di Dio”, e quasi il presidente del Pd si metteva in ginocchio in quella sonora e luminosa stanza che s’affaccia sui Fori imperiali e che fa da studio al sindaco di Roma, lui rispondeva con l’inconfondibile voce di chierichetto devoto a Sacher-Masoch: “Io non solo non mi dimetto, ma se mi sfiduciate convoco pure una conferenza stampa e faccio i nomi di chi mi aveva consigliato di assegnare gli incarichi a Ozzimo e a tutti gli altri inquisiti in Mafia Capitale”. E quando pronunciava queste parole Ignazio Marino dicono avesse un sorriso soddisfatto e indispettito, la stizza gli guizzava negli occhi, compiaciuto della propria maliziosa intelligenza, mentre intanto, fuori, tutt’intorno al Campidoglio, si materializzavano tre cerchi concentrici di assedianti: sbracati manifestanti urlavano sulla piazza, una sinistra di lotta e di forchetta contrapposta a una destra d’abbacchio e d’ordine si scambiavano improperi di fronte al povero Marco Aurelio. Dentro il Palazzo c’era mezzo Pd romano che bivaccava nell’anticamera dello studio capitolino, poco più in là i fedelissimi Cattoi e Sabella proteggevano la porta del sindaco, e infine c’era lui, Marino, barricato dentro il suo studio, come il rapinatore di banca Al Pacino in “Quel pomeriggio di un giorno da cani”, ma per fortuna senza ostaggi.
Al partito, in Largo del Nazareno, è stato tutto un via vai di facce scure che Matteo Renzi ha evitato accuratamente prendendo un salvifico treno per Modena. Anche lui, come Berlusconi, evita i funerali, le sconfitte e le brutte figure (la visita al museo della Ferrari con Elkann e Marchionne era prevista da tempo, sì, ma si è rivelata quanto mai opportuna nel giorno del marasma capitale). E a Roma i più renziani tra i renziani, come i consiglieri Improta e Prestipino, in privato già se la prendono con Orfini, anche lui assediato, come Marino, ma dalla malinconia. Nel partito ha tirato per tutto il giorno un’aria da resa dei conti interna, che complicava ogni mossa. A Orfini viene imputata l’intera strategia di “contenimento” del danno in questi mesi: il suo commissariamento morbido imposto a Marino, un’allegra improvvisazione, dicono: “Marino andava cacciato prima, non protetto”.
E così per tutto il pomeriggio, nella stanza del malcapitato Orfini, gli assessori del Pd entravano e uscivano, anche quelli che si sono dimessi come Esposito, Causi e Di Liegro. Si facevano calcoli, si telefonava anche agli avversari, a quelli di Forza Italia, ad Andrea Augello di Ncd, a Fabio Rampelli di Fratelli d’Italia: “Potremmo far dimettere metà del Consiglio comunale, tutti insieme, maggioranza e opposizione”. Ciascuno cercava l’idea risolutiva per liberarsi di Marino, quella mossa geniale che però non esiste, come sperimentò anche Napoleone a Waterloo. A un certo punto compariva pure Paolo Cento, segretario cittadino di Sel. “E’ meglio una fine spaventosa che uno spavento senza fine”, diceva. E allora: “Noi della maggioranza dobbiamo assolutamente sfiduciare Marino. Dobbiamo farlo noi”, si ripetevano tutti. Ma poi qualcuno dubitava: “Non abbiamo i numeri, qua nessuno molla senza contropartite”. Mentre quello, Marino, resisteva, strepitava, persino minacciando: “Sfiduciatemi e facciamo un bel dibattito pubblico in Aula. Poi vediamo chi esce distrutto”. Per poi farsi improvvisamente conciliante: “Potremmo risolverla con un rimpasto”. Ma sarebbe stato il quarto. Così, circondato, caduto anche il sostegno del partito di Vendola, raggiunto il climax del grottesco, tra urla e pernacchie, alla fine il sindaco marziano, quasi costretto da Sabella e Causi nel ruolo di badanti, ha annunciato con riluttanza le sue palindrome dimissioni. Ma in un capolavoro di surrealismo: le ha date ma non le ha date, con una lettera pubblica piena di allusioni, rimandi, stranezze, avvertimenti: “Non nascondo di nutrire un serio timore che immediatamente tornino a governare le logiche del passato, quelle della speculazione, degli illeciti interessi privati, del consociativismo e del meccanismo corruttivo-mafioso”.
E insomma si capisce che la telenevola non finisce qua, “ho venti giorni per ritirare le dimissioni”, ha detto, mentre nel Pd qualcuno teme la carta del “matto”, come nei tarocchi: che succede se si ricandida alle elezioni, e prende abbastanza da far perdere il centrosinistra? E che succede se tra venti giorni invece non si dimette? Una follia. Si ricomincia da capo. “Ma insomma si è dimesso, sì o no?”, chiedeva ieri sera un incredulo Matteo Renzi. Qualcuno gli ha risposto così, senza ironia: “Dipende”.