Generazione Royal Baby
Voglio rassicurare Gianni Riotta e Giovanni Sabbatucci che ieri a vario titolo, con toni ed esiti differenti, sulla Stampa e sul Messaggero, s’interrogavano intorno al miraggio (Riotta) e al vuoto (Sabbatucci) di una nuova classe dirigente in Italia. La premessa sta nell’appello del cardinale Vallini cui ha risposto ieri sul Manifesto il radicale Mario Staderini: date voi il buon esempio, pagate le tasse arretrate. Il tema rischia di essere inquadrato di sguincio, se lo si chiuda nel recinto sabbioso della politica. Così fa Sabbatucci, che si costringe poi a caldeggiare una versione aggiornata del vecchio sistema di selezione partitico. Riotta riempie meglio i polmoni, individua nei nostri anni Novanta un’occasione mancata (decapitazione cieca della vecchia Repubblica, declinismo incombente) e tocca la questione nella sua essenza, quella di una emergente, giovane “ruling class” che unisca, riformi e globalizzi un’Italia altrimenti destinata a una mediocre meridionalizzazione. Riotta conosce i rischi del presente, dalla corbynizzazione dell’eurosinistra alla sclerosi dinastica americana, e tuttavia conosce la risposta ai suoi interrogativi, non foss’altro perché è parte attiva, maieutica direi, della “ruling class” evocata.
La risposta è che una classe dirigente c’è già, la svolta è nei fatti prima che nei diritti anagrafici dei trentenni e quarantenni che si stanno prendendo l’Italia. E senza nemmeno averla chiesta, “con un formidabile colpo di mano”, come dice Christian Rocca nel libro-manifesto di questa classe d’età – “Non si può tornare indietro”, Marsilio editore – che raccoglie i contributi dei “migliori talenti editoriali del paese” apparsi dal 2012 su IL, il mensile del Sole 24 Ore. Renzi e il suo principato c’entrano ma fino a un certo punto, sono semmai il detonatore di una meccanica più vasta. I nuovi e giovani padroni dell’antica Italia sono i prodotti iper tecnologizzati di una mutazione antropologica, impermeabili alle ideologie novecentesche, inquilini non morosi di un capitalismo globalizzato e liberalizzante che, dicono, ha vinto la povertà, non hanno vincoli di culture, etichette, protocolli e affiliazioni (sentono però d’inverare la scommessa del True Progressivism blairiano). Lodano la “bambinizzazione della società” propagata da Jovanotti, interpretano “la fine dell’età adulta” certificata da A. O. Scott sul New York Times Magazine. Hanno gli stessi consumi culturali dei loro figli, oscillano tra Philip Roth e le serie tivù di Sky Atlantic, prendono le loro decisioni “con un metodo improvvisato che viene comunemente considerato un problema, quando invece al contrario, probabilmente, è la cosa migliore dell’esperienza di governo renziana. Rompere gli schemi. Ripensare le liturgie… come un jazzista che improvvisa, compone e crea sul momento”, dice Rocca, esultante: “Stiamo meglio, non stiamo peggio… Noi vogliamo divertirci e divertire, informando e facendo discutere”.
[**Video_box_2**]E’ una sintesi, la mia, e come tale impoverisce un po’ questo manifesto dei sansepolcristi del renzismo. Ci sono peraltro molti foglianti fra loro, militanti o sostenitori fuori quota come l’elefante emerito, lui che per primo ha colto nei nuovi barbari gli attori protagonisti di un’avventura senza alternative credibili, up to date, luccicanti come poté esserlo, o sembrarlo, il berlusconismo sorgivo e sognante. E’ la generazione Royal Baby e, se lo vorrà, si prenderà anche Roma candidando il proprio brand più che una donna o un uomo in particolare. Possono mancare l’occasione, non sarebbe la prima volta, ma è il loro turno e, se l’anima mundi parlasse a voce alta, forse esclamerebbe: non sono i miei tipi, ma il mondo è loro. Adesso.