Perché l'Anm ha paura di Raffaele Cantone
Nell’attesa di capire che animale politico diventerà Raffaele Cantone c’è un aspetto particolare del cantonismo che merita di essere messo in rilievo, e che costituisce una piccola medaglia al valore per il presidente dell’Autorità anti corruzione. Cantone ha molti difetti, fa parte di quella folta schiera di magistrati convinta che il ruolo di un procuratore della Repubblica debba andare al di là della singola attività legata ai processi e anche due giorni fa ha dato prova di appassionarsi molto di pedagogia provando a dare una sua valutazione politica e culturale sulle differenze che sussistono oggi tra Roma e Milano (tutti si sono concentrati sulla storia della capitale morale; nessuno ha però notato l’assurdità di un paese in cui i magistrati si sentono in dovere di occuparsi di morale).
Le cantonate di Cantone dunque non mancano ma tra queste occorre isolare una serie di affermazioni importanti che il presidente dell’Anac ha maturato qualche mese fa durante una conversazione con il direttore di questo giornale. Cantone ha detto che le correnti della magistratura sono un cancro, ha denunciato, parlando anche del rischio deriva di Magistratura democratica, i rischi legati all’utilizzo della lotta di classe, ha descritto il Csm come un centro di potere vuoto e ha formulato la stessa frase ripetuta ieri sull’Associazione nazionale magistrati della Sabelli band: “Da loro non mi sento rappresentato”. Non si sa se le parole di Cantone siano legate alla maturazione di un suo nuovo profilo non lontano ormai da quello del politico. Si sa però che su questo punto Cantone ha ragione da vendere. E sorprende che, di fronte a un magistrato rispettato che mette a nudo i limiti di una corporazione, siano proprio quei magistrati che hanno trasformato l’Anm in un generatore automatico di fatwe alla politica ad indignarsi, a imbronciarsi e ad accusare Cantone di fare quello che loro fanno da sempre: politica.