Ignazio, Corradino (e Beppe)
Ignazio Marino non ha “nulla né da chiedere né da negoziare”, ma se tornasse in Campidoglio, come ha fatto capire ieri, il problema sarebbe tutto dei 19 consiglieri dem: di sfiduciarlo. Il Pd contro il “suo” sindaco. Ma poi, alle primarie, chi potrebbe impedirgli di ricandidarsi “contro” il Pd, contando su una sua base – che non è più il Pd, ma è pur sempre la constituency cui guarda il Pd? Non facile. Altro caso. Non per rendere l’onore delle armi a Corradino Mineo, che ha lasciato i senatori del Pd per il Gruppo misto, ma ieri, sul Manifesto, ha scritto una sua versione non priva di senso. Non tanto sul trattamento da “centralismo democratico” subìto dal capogruppo Zanda. Quanto sull’obiezione che la “narrazione” del Pd renziano – un partito “in franchising”, detto con meno astio sarebbe un partito aperto – finisce, per reggere, per dover “essere una sola”. “La macchina narrante fa sì che i dissidenti si auto espellano”.
Si può prenderla per buona, la versione di Mineo, ma anche no. Anzi abbiamo sempre detto che le riottose minoranze delle minoranze non hanno il diritto (divino) di veto su quel che la maggioranza di un partito ha scelto. Ma Mineo pone un problema, che prima o poi Matteo Renzi dovrà affrontare, e di cui sta già pagando il conto. Se si è scommesso su un partito aperto, contendibile, che seleziona la sua leadership e fa le primarie, poi è difficile, molto difficile, guidarlo imponendo una linea e invitando chi dissente ad accomodarsi. Poco poco, è il problema che rischia di porsi anche a Milano. Dove Beppe Sala è stato designato come ottimo candidato in pectore dal Pd, e nel partito sono d’accordo circa tutti. Ma poi tutti sanno che la base elettorale dentro e fuori il Pd non è così convinta, e le primarie rischiano sempre di fare guai. Allora fa capolino l’idea di designare il candidato, e basta. Ma poi c’è la forma-partito da rispettare. E non solo pro forma.