Il crescendo mediatico-giudiziario è il “tappeto rosso” per Grillo
Roma. E a questo punto, non solo nel Pd, ci si domanda come si sia arrivati, a Roma, ad affacciarsi sull’orlo del dirupo, con la politica che si autorottama alla vigilia dell’inizio del processo “Mafia Capitale” (giovedì 5), in un crescendo teatrale di previsioni fosche e gogne mediatiche preventive, sullo sfondo della surreale vicenda Marino, con i sondaggi che prevedono sfracelli a Cinque Stelle (in teoria) sul tappeto rosso del populismo. E ci si domanda come si possa, ora, a Roma, evitare di prepararlo senza accorgersene, il tappeto rosso a Beppe Grillo e ad altri aspiranti “grillismi”, alimentati dall’indignazione a comando contro i bau-bau del popolo della Trasparenza: i “ladri”, i “corrotti” – spesso presunti ladri e presunti corrotti – e ora persino i “101 dirigenti sospetti” della relazione sul Comune che si voleva sciogliere, ora desecretata dal prefetto Franco Gabrielli. Centouno: un numero infausto per la politica (vedi caso Prodi alla vigilia delle votazioni per il Colle, nel 2013), con damnatio simbolica sui nomi degli “improbi” che potrebbero aver commesso reato (ma anche soltanto peccato), carne da intercettazione buttata nell’arena. E se è vero che Roma risente da anni del generale clima anticasta che sorregge il “no” spesso irrazionale e internettiano al professionismo partitico degli eletti nelle istituzioni, con squalifiche sommarie su twitter e ostracismi truculenti (e superstiziosi) che corrono di post in post su Facebook come nel telefono senza fili, è vero anche che oggi va in scena la marcia frenetica di preparazione al botto, con il processo per “Mafia capitale” che fornisce il canovaccio quotidiano per il surplus di indignazione, e con la politica che appunto si autosospende sognando il governo dei prefetti, degli esperti e dei “giusti” che possano educare la romanità scomposta e magheggiona.
E però gli indizi c’erano tutti. Era la fine di novembre del 2014, alla deflagrazione di “Mafia capitale” mancavano ancora due giorni e Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, prendeva la parola al teatro Quirino, durante la conferenza programmatica del Pd. E faceva quella che, con il senno del poi, si rivelerà un’anticipazione ufficiosa dei risultati dell’inchiesta, parlando di appalti, tangenti, rapporti ambigui tra politica e affari, reati contro la pubblica amministrazione e scambi elettorali – voti contro favoritismi nelle gare. E pronunciava, Pignatone, anche la parola “mafia”, anche se qualche giorno dopo la edulcorava dicendo che a Roma non c’era “la Cupola”. Solo che ormai la percezione collettiva era proprio quella: la parola di lì a pochi giorni sarebbe diventata virale, con eco in tutto il mondo. Nella Capitale, diceva Pignatone, esiste “il rischio di un accordo tra mafia e altro, di un patto che non si basa sulla paura ma sulla reciproca convenienza. Il politico in questo accordo è in una posizione di forza rispetto al mafioso”. Due giorni dopo veniva giù tutto, l’inchiesta “Mafia capitale” scoperchiava lo scenario da “Suburra”, con neri e rossi (Massimo Carminati e Salvatore Buzzi) alleati in affari, e con contorno trasversale di politici, benzinai di Roma Nord e incontri notturni nella nebbia al bar sotto al viadotto. Crollavano certezze, si indagavano assessori, si commissariavano partiti (il Pd veniva affidato a Matteo Orfini) e si ascoltava l’allora sindaco Marino dire “io non c’entro”. Ma il vero segno premonitore del futuro crescendo mediatico-giudiziario era un altro. Pignatone parlava infatti di reati, ma anche di “etica”, anticipando il vero punto su cui si fonderà la campagna antipolitica romana: la questione morale nel senso dell’“opportunità” (sei sfiorato dal sospetto e questo basta, è il concetto). Non a caso i Cinque Stelle, a ogni intervista tv (come Alessandro Di Battista a “Bersaglio Mobile”, su La 7, venerdì scorso), insistono sulla questione “opportunità”. E la politica diventa distribuzione a monte della patente di purezza.