Beppe Grillo (foto LaPresse)

Partito della nazione, perché no? Ma a modo suo l'ha già realizzato Grillo

Alessandro Giuli
Lo si potrebbe chiamare Partito (delle viscere) della nazione. E quanto a trasversalismo, superamento dei recinti dialettici destra/sinistra e riformulazione dei clivages, più o meno ci siamo.

Un partito della nazione c’è già, anche se non è quello del “riformismo trasversale che dell’opposizione ideologica d’antan non sa che farsene” (Giuliano Ferrara sul Foglio di ieri). E’ invece qualcosa che somiglia molto alla “alleanza tra antipolitica grillina e establishment pigro all’italiana” (sempre Ferrara). Il direttore emerito indica il modello francese – presidente veterosocialista con premier e ministro dell’Economia spostati a destra, in coerenza ideale con il poco che funzionò nel sarkozismo: le ruptures – come “un viottolo percorribile”, o almeno da mettere a tema anche in Italia. Ha talmente ragione che si potrebbe assumere la questione a contrario: negli ultimi anni sono state “le forze oscure della reazione” a portarsi avanti con il lavoro. In principio fu la lotta alla “Casta” e all’arcinemico Berlusconi, ma poi è seguìto spontaneo l’assemblaggio in un girone post ideologico di pezzi della società civile in libera uscita dai partiti tradizionali, frammenti di paleoconservatorismo sindacale (da Landini in poi), schegge organizzate provenienti dalle meglio procure nazionali (dal popolo viola o arancione con De Magistris alla cometa spenta di Ingroia), intellettuali errabondi e incazzati (da Massimo Fini ad Asor Rosa che ancora ieri sul Manifesto cercava di risalir li rami per collegare il tutorato renziano su Roma, e in particolare il modello Milano cui s’ispira il commissario Tronca, con la doppia effigie di Berlusconi e Mussolini).

 

Se il Fatto quotidiano ha dato una forma editoriale avanguardistica a queste pulsioni, il Movimento di Beppe Grillo fornisce una massa critica che, di là dall’evanescenza dei sondaggi, sta mostrando per lo meno una sua durevolezza. Possiamo chiamare tutto questo Partito (delle viscere) della nazione? Sì e no. Ma quanto a trasversalismo, superamento dei recinti dialettici destra/sinistra e riformulazione dei clivages, più o meno ci siamo. Questurini identitari e legalisti, ma pure feticisti della Costituzione e dell’articolo 18, interpreti della volontà generale giacobina aggiornata con i dispositivi digitali dei tempi ultimi, senonoraquandisti al seguito di un patriarca dell’avanspettacolo come Grillo: che animali politici sono? Non è casuale che il loro bersaglio grosso sia stato Giorgio Napolitano, il quale dell’altro plausibile partito della nazione sarebbe presidente onorario, percepito com’è dai suoi odiatori come il fautore d’un patto di sistema che dal 2011 in poi, da Monti a Renzi passando per un quasi-Bersani e un flaccido Letta, ha faticosamente imposto la reciproca legittimazione tra fronti altrimenti irriducibili l’un l’altro. Del resto, pochi lo ricordano, il governo Renzi si regge sul rapporto organico con una parte della nomenclatura parlamentare berlusconiana. E forse il punto è questo: in Francia certi attraversamenti culturali avvengono tra blocchi storici, socialisti e gollisti, impalliditi ma vivi e finora capaci per via elettorale di marginalizzare il lepenismo (un domani, chissà, saranno forse costretti a un avvicinamento più strategico). In Italia il rapporto biunivoco tra centrodestra (?) e centrosinistra oscilla tra ambiguità e tatticismi: si stenta ad ammettere che un altro partito della nazione c’è già, e grida fortissimo.

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