Giusta direzione della manovra, anche sulle tasse, ma dubbi sulle priorità. Tre ragioni
Nel 2010 – durante la più grave recessione dagli ultimi cento anni – la legge finanziaria ha cambiato nome: è diventata legge di Stabilità. Oggi che per la prima volta parliamo di ripartenza, non serve cambiare nome, ma sostanza, per farla diventare, finalmente, legge di crescita. Questo governo ci sta riuscendo? Chi ben comincia è a metà dell’opera, è vero, ma non dobbiamo perdere di vista il traguardo della crescita, sia perché la manovra ha un lungo percorso parlamentare nel quale tutto può cambiare, sia perché gli effetti si vedranno solo quando la base monetaria creata si tradurrà in investimenti concreti, progetti operativi, riforme economiche. Tre punti, però, sono certi. Primo, il governo ha evitato una tragedia, bloccando le clausole di salvaguardia delle aliquote Iva e delle accise sui carburanti – una ghigliottina che da anni pende sulla testa del paese – che avrebbero affossato i consumi e riportato l’Italia ai blocchi di partenza. Secondo, è stata vinta la battaglia per la flessibilità a Bruxelles, anche grazie a tutte le riforme – dal Jobs act e alle pensioni, dalla Pubblica amministrazione al Senato – che rendono l’Italia, secondo l’Economist, il paese più stabile dei prossimi anni. Ma più che un articolo lusinghiero su un giornale, questa vittoria conta perché si traduce in soldi veri da usare per crescere: la clausola flessibilità vale più di 11 miliardi, di cui 7 saranno dedicati al sud, soldi che, insieme ai fondi strutturali e ai 15 progetti del Master Plan, potrebbero cambiare la geografia e il futuro di un territorio che non è solo la metà dell'Italia, ma la sua metafora, sia sotto il profilo delle criticità (legalità, banda larga, connessioni viarie e portuali) sia sotto quello delle eccellenze imprenditoriali, culturali e naturali. Le misure specifiche per il Mezzogiorno – 150 milioni per il prossimo anno – restano però purtroppo poche e mancano il credito di imposta per la ricerca e i contratti di sviluppo; così come la riduzione dell’Ires, che, anziché avvenire da subito e con certezza, resta appesa alla decisione di Bruxelles su quanti soldi darci per l’accoglienza migranti. Eppure, sono proprio le tasse sulle imprese e l’infrastrutturazione del Sud che possono valorizzare il potenziale dell’Italia, il suo patrimonio culturale e industriale, attraendo investimenti, creando lavoro per quei giovani che oggi sono costretti a emigrare, permettendoci di competere con la Germania. Anzi, di superarla, perché abbiamo già una Lombardia che cresce più della Baviera e se riusciamo a portare l'Italia al livello di Bergamo e Brescia potremmo essere la prossima locomotiva europea. Terzo, si è riusciti a tenere insieme vincoli di bilancio e riduzione delle tasse, perché oltre l’80 per cento delle risorse va ad abbassare le imposte e, secondo i calcoli di Confindustria, la pressione fiscale dovrebbe scendere di più di un punto di pil nel 2016. Una manovra espansiva, dunque, che allo stesso tempo non addossa tutti i costi sulle prossime generazioni, a differenza di quanto è avvenuto per decenni. Anche se – come imprese – su quali tasse tagliare avremmo preferito scelte diverse. Perché, benissimo il superammortamento dei beni strumentali, bene i bonus per le ristrutturazioni edilizie e l’efficienza energetica, il piano Made in Italy per l’internazionalizzazione delle imprese, la detassazione del salario di produttività e la proroga parziale della contribuzione ridotta sui neo-assunti. Ma aver destinato gran parte dei fondi all’abolizione della Tasi ha indebolito la potenza di fuoco delle altre misure dedicate a chi lavora e fa impresa, gli uomini e le donne che rappresentano l’eccellenza dell'Italia nel mondo, quelli che tengono in piedi il paese.
Marco Gay è Presidente dei Giovani di Confindustria