A chi fa paura la Sala giochi
Dire che sia proprio un uomo del popolo, di quelli che vengono dalla pompa di benzina di papà, magari no. Però viene dalle gomme: ha iniziato in Pirelli, con Tronchetti Provera. Non proprio operaio gommista, ma manager: comunque sempre lavoro, industria, Milano, “stag adoss!”. Per i milanesi, che tra qualche mese potrebbero trovarselo sindaco, è soprattutto l’uomo in maniche di camicia con il badge al collo che per sei mesi ha guidato – verrebbe da dire a mani nude – il traffico milionario (inteso dei visitatori) dell’Expo. L’uomo che ha condotto la nave in porto, trionfo popolare e planetario. Ed è proprio ai milanesi del popolo e a quelli della “grande Milano” che, rilievi demoscopici alla mano, piace di più: è uno che ha fatto, e che ha fatto bene. Al netto delle caccole che i pm di buona volontà si stanno sforzando e ancora si sforzeranno di trovare nella lunga e tormentata storia di Expo (di Expo, beninteso, prima che Raffaele Cantone, il commissario del governo all’Anticorruzione, planasse renzianamente su Milano per benedire la rinascita ella “capitale morale). Poi ci sono i milanesi che lo conoscono da oltre vent’anni come manager capace – la comunità del business, dalla finanza all’industria, a monumenti dell’imprenditoria civile come Piero Bassetti, che cinque anni fa fu uno degli artefici del vento lungo di Pisapia – che sanno bene chi è. Niente da dire. Poi c’è una zona di milanesi più complessa da identificare, anime della sinistra mischiate ad anime belle, che Beppe Sala proprio non lo manda giù. E’ la sinistra-sinistra, la sinistra arancione della “continuità”. Infine c’è l’inner circle della sinistra-Cerchia del Navigli, salottini più che salotti, il mondo Pisapia. Quello da cui in pochi giorni la settimana scorsa è emersa l’idea di opporre a una possibile e temuta “investitura dall’alto” di Sala come candidato sindaco, quella – sempre via primarie – di Francesca Balzani. Che è un politico capace (“altrimenti non l’avrei scelta”, Pisapia dixit), assessore al Bilancio e da qualche mese vicesindaco. Già eurodeputata del Pd, con il piccolo handicap meneghino di essere di Genova, dove fu assessore, sempre al Bilancio, di Marta Vincenzi.
Giuseppe Sala, probabilmente, tutto si sarebbe aspettato dalla vita, fuorché diventare un giorno non soltanto un quasi candidato sindaco, ma soprattutto l’immagine in cui si specchiano e si confrontano due idee della sinistra, della politica, della città. Come notava Stefano Folli ieri su Repubblica, Sala per il Pd, per Renzi, è più che un candidato, è l’idea di un modello di sinistra: “Dirigente post-politico di alto profilo tecnico”, portatore sano di un’unica ideologia: “Il senso civico e la volontà manageriale di portare a termine la missione del momento”. Una sinistra del fare, sensibile all’innovazione e al mondo imprenditoriale, di “cambiamento” e non di “continuità” rispetto al passo lungo e compassato della sinistra d’antan. E anche di quella, che pure ha amministrato bene la città, del modello Pisapia: ecologia, benecomunismo ben temperato, raccolta differenziata e smart city: ma anche poca energia nel pensare in grande, poca voglia di rischiare affidando le chiavi della città all’impresa, al business, all’internazionalizzazione. Per Matteo Renzi, l’ex commissario dell’Expo rappresenta questa immagine di “sinistra di governo”. Il resto, sarebbe un passo indietro. E una botta, non solo d’immagine, al suo percorso nazionale. Al momento, il partito milanese non ha ufficializzato alcuna “candidatura Sala”, né ha intenzione di farlo – dovrà uscire un nome condiviso dalle primarie. Ma Sala è in pista, gradito alla maggioranza del partito. E la raccolta delle firme per le primarie parte lunedì prossimo.
Oggi è il giorno della visita ad limina, a Roma, di Giuliano Pisapia, sindaco uscente e attuale kingmaker di ogni possibile candidatura alternativa a Sala. Va a trattare con il segretario nazionale del Pd, Matteo Renzi. La cosa notevole della trasferta romana di Pisapia – e che ha fatto rizzare i capelli a più d’uno, pure tra i suoi – è che il sindaco si porterà appresso Francesca Balzani. Andrà a provare di “farla benedire” da Renzi, qualcuno ha detto; o almeno per fargliela conoscere (“la cena per farli conoscere”, è la citazione cult del momento a Milano) nei panni di “candidata della continuità” individuata dal mondo arancione. Neppure alla sinistra interna del Pd milanese, figure storiche di peso come Barbara Pollastrini o Antonio Panzeri, che preferiscono candidatura di Pierfrancesco Majorino, sono rimasti entusiasti dell’idea. Soprattutto perché, dopo tutta l’impuntatura ideologica che prosegue da mesi sul fatto che “il candidato sindaco non ce lo impone Roma” (né tantomeno Renzi), che il nome non si cala dall’alto, e in barba alla campagna contro Sala “candidato dei salotti”, alla fine succede questo: che Pisapia va a Roma, da Renzi; prova a calare dall’alto una candidata; la quale è un prodotto non dei salotti, ma proprio del salottino di Pisapia. Più che andare a trattare, sogghigna qualcuno, è un andare a Canossa.
Insomma un’idea politicamente contraddittoria, se non suicida, la Balzani contrapposta a Sala. Anche perché lei, buona famiglia genovese, è un’altra cosa rispetto alla storia tutta milanese, persino un poco popolare, che Beppe Sala rappresenterebbe. Viene dalle gomme. Anzi prima ancora dai mobili, perché mobiliere era suo padre. Milanese, bocconiano, compirebbe 58 anni nei giorni che potrebbero vederlo diventare primo cittadino. Per storia professionale, Sala è un Tronchetti Provera boy. Carriera senza intoppi. Entrato subito in Pirelli, nel 1994 è direttore della gestione e pianificazione strategica dei pneumatici, nel 1998 è amministratore delegato di Pneumatici Pirelli, nel 2001 è senior vice president operations, responsabile delle strutture industriali e logistiche del settore pneumatici. Sono gli anni 90 in cui Marco Tronchetti Provera si prende la guida operativa del gruppo, ne ristruttura le attività, rilancia la gestione finanziaria, diversifica nell’immobiliare (la Grande Bicocca). Fino all’inizio degli anni 2000, quando Tronchetti Provera prende il controllo di Telecom Italia, la seconda grande partita della sua vita (Fc Inter a parte: a proposito, anche Sala è un nerazzurro doc). Così nel 2002 Sala trasloca in Telecom, chief financial officer di Tim, prima di essere dal 2003 al 2006 direttore generale di Telecom Italia. In pratica, è l’ultimo grande momento, prima delle rivoluzioni immobiliari e finanziarie, in cui Milano è stata un centro nevralgico della finanza, dell’industria, dell’innovazione. Da Telecom Sala se ne va, forse quando si accorge che le sue linee strategiche hanno poco futuro. Un anno (2007-2008) da senior per Nomura. E un anno dopo, il salto nel pubblico, la nuova vita.
Non tutti i milanesi che oggi conoscono l’uomo dell’Expo si ricordano che Sala si è già occupato di loro da molto vicino: nel gennaio del 2009 Letizia Moratti, la Lady di Ferro del centrodestra che guidava la città, lo chiamò a ricoprire la carica di Direttore generale del Comune di Milano. Aveva bisogno di un tipo capace, e va bene, ma aveva anche bisogno di qualcuno che fosse consentaneo alla visione efficentista, e un tantino aziendalista, della politica e della pubblica amministrazione. Infine l’Expo.
[**Video_box_2**]Ma, paradossalmente, è proprio quell’incarico comunale cui fu chiamato dalla giunta di centrodestra Moratti che gli viene rinfacciato. In modo strumentale, va detto: Giuseppe Tomarchio, l’attuale dg del comune guidato da Pisapia, era già vice direttore generale ai tempi di Gabriele Albertini: il sistema di selezione manageriale dei civil servant, per curriculum, è una regola condivisa di Milano. Non è un passaggio di poco conto, nemmeno nel suo risvolto politico. Galli della Loggia ha scritto sul Corriere di una rinata “dualità Milano-Roma: naturalmente tutto a vantaggio della prima”, sottolineando che si tratta di un “dualismo tra due pezzi della storia d’Italia”. Il problema di Roma è la sua mancanza di identità civica, tesi non nuova. All’opposto, “la ‘moralità’ di cui Milano si vuole capitale… è innanzi tutto rivendicazione della supremazia etica del fare. Per questo Milano piace e punta su di lei chi siede al governo del paese desideroso di bruciare le tappe, insofferente delle procedure: chi vuole rappresentare l’operosità modernizzatrice”. Beppe Sala incarna, al di là delle personali qualità o mancanze, esattamente questo. Uomo moderatamente (o privatamente, fin qui) di centrosinistra, è la personalità giusta per interpretare il tipo di visione politica che Renzi pratica e predica a sinistra. Un po’ nel deserto, sembrerebbe.
La cartina di tornasole di questa dimensione strategica, si potrebbe dire, di Giuseppe Sala – come ha notato più di un commentatore, Napoli e Roma in fondo non lo sono altrettanto – è la mappa di chi lo sostiene oggi. Ovviamente, dentro il partito, i renziani come Lorenzo Guerini, per stare sul livello nazionale. Ma anche quell’area ibrida dei bersaniani o ex bersaniani, come Maurizio Martina, ministro delle Politiche agricole e altro uomo chiave di Expo. Poi altre figure che contano nel pd milanese, da Patrizia Toia a Lia Quartapelle, e assessori come Chiara Bisconti e Franco D’Alfonso, che si è spostato dall’ortodossia pisapiana – in sostanza è la maggior parte pd della giunta. Tra quelli che vedono di ottimo occhio sono i rettori delle Università, come Gianluca Vago (don’t forget il piano per il dopo Expo), o il genius loci di assoluta autorevolezza come Piero Bassetti, o economisti come Marco Vitale, manager come il presidente di Sea ed ex banchiere Pietro Modiano. E’ una cartina di tornasole che si somma a quella di chi lo ha sostenuto prima, nell’ industria privata.
Poi c’è quel piccolo, non trascurabile problema. La sinistra – intesa gli elettori di ogni di ordine e grado – ha la memoria lunga e Beppe Sala lo detesta proprio in virtù di quel suo essere stato un manager “morattiano”. Non è solo questione di “lesa arancionità” (il partito della continuità che si oppone a quello del cambiamento renziano). E’ che la sinistra interna ed esterna al partito ci vede un vizio di fabbrica. E soprattutto legge il curriculum politico complessivo di Sala come più orientato verso una sorta di centrismo tecnocratico che non verso la sinistra alla Pisapia. Un problemino per Renzi, che infatti in questi mesi ha puntato tutto sul brand vincente dell’uomo dell’Expo, sperando di far dimenticare il passato. Di manager di industria e finanza, soprattutto, più ancora che di Direttore del Comune. Così la maretta che da mesi increspa le acque a sinistra – davvero Sala è il “nostro” uomo? – si è trasformata nella piccola tempesta della candidatura alternativa. E si sa che per la sinistra la prova d’amore di un candidato è soltanto e sempre il sacro lavacro delle primarie: che, come noto, sono anche una lotteria.
E’ anche per la consapevolezza di questo che Mr Sala cerca sistematicamente di schivare come la peste l’accusa di essere, in realtà, l’uomo del “partito della nazione”. Ancora l’altro giorno, perdendo per un attimo la sua tranquillità zen: “Il partito della nazione? Ma se io, come tutti gli italiani, non so neppure cosa sia”. Allo stesso tempo, Sala sta cercando di cancellare da sé l’immagine dell’amministratore anodino, del manager-civil servant che bada solo al risultato: lui è di centrosinistra, perbacco. Ma non lo dice per il popolo di Milano, cui piace proprio per questo. Lo dice per la sinistra, che ha rancori lunghi.