foto LaPresse

Rappresentanza e rappresentazione. Passeggiata tra i selfie (e i riti) della Leopolda

Salvatore Merlo
E insomma alla Leopolda in realtà non succede quasi niente, non c'è davvero materia per il punto di Stefano Folli, ma forse per una rubrica di Camilla Cederna sì. Non è un congresso, non è un convegno, non è una festa di partito, non è nemmeno – soltanto – una collana di micro comizi della durata massima di quattro minuti. E' un grande cinema.

Firenze. Signore combattive e un po' agée vogliono la foto con Marco Damilano, il giornalista dell'Espresso, d'altra parte l'hanno visto in tivù, a "Gazebo". La foto la vogliono a tutti i costi, e se la fanno scattare da uno dei più importanti giornalisti di Repubblica, scambiato per un passante contegnoso (in tivù non ci va mai): "Scusi lei, ci farebbe una foto?". Poi qualcuno si avvicina a Ivan Scalfarotto, sottosegretario alle Riforme: "Ma tu che ci fai qua?". E quello, di sale: "In che senso, scusi?". E l'altro: "Ma tu non sei Roberto Speranza!". Sospensivo imbarazzo.  E insomma alla Leopolda in realtà non succede quasi niente, non c'è davvero materia per il punto di Stefano Folli, ma forse per una rubrica di Camilla Cederna sì. Non è un congresso, non è un convegno, non è una festa di partito, non è nemmeno – soltanto – una collana di micro comizi della durata massima di quattro minuti. E' un grande cinema. Ci si fanno tanti selfie. Ed è tutto palesemente finto, ma anche vero. 

 

Simona Ercolani, un tempo gran sceneggiatrice delle feste dell'Unità e delle campagne elettorali di Pier Luigi Bersani, se ne sta in regia, chiusa da qualche parte di questa stazione trasformata in teatro del renzismo: controlla tutto. "E' lì in alto", dice uno, "no è lì dietro", sostiene un altro ("vedessi tu, c'ha dieci monitor davanti, come al grande fratello", racconta il marito, Fabrizio Rondolino). E' come il regista del Truman Show, la signora Ercolani, presente eppure assente. Ciò che deve sparire, sparisce. E ciò che non esiste, si materializza. Potenza delle immagini.

 

A un certo punto sale sul palco Roberto Giachetti, focoso deputato chiamato a parlare di riforma elettorale. Non fa in tempo a pronunciare le prime due parole che qualcuno dal pubblico – inquadrato con sapienza dalle telecamere – inizia a gridare, come in uno sketch preparato: Giachetti sindaco! Giachetti sindaco! (bisogna sapere che Renzi vorrebbe far fare a Giachetti il sindaco di Roma, ma quello non ne ha nessuna voglia). E così, mentre Giachetti parla di premi di maggioranza, di liste uniche, di coalizioni e di urne, la signora Ercolani preme un pulsante, e alle spalle del candidato riluttante – e senza che lui se ne accorga – compare una gigantografia del Campidoglio. Anvedi: messaggio neanche tanto subliminale. Il povero Giachetti se ne accorge solo dopo, riguardandosi attraverso i soliti selfie. Allora si avvicina a Filippo Sensi, portavoce di Renzi, uno che sostiene di non fare niente e invece fa tutto: "A Fili', me volete tira' er pacco", gli dice (versione di Giachetti: "Non mi candido e conto sulla volubilità di Renzi"). Ma Renzi non è volubile: fa esperimenti politici, con cavie umane. E voleva vedere l'effetto che fa, come nella canzone di Jannacci.  

 

[**Video_box_2**]E infatti basta guardarlo, il presidente del Consiglio e segretario del Pd, mentre si muove dietro le quinte, mentre ascolta tutti e registra la durata degli applausi, le reazioni del pubblico, mentre fa sfilare sul palco, con fluidità di sceneggiatura, una classe dirigente in potenza. Ed è come se desse i voti a ciascuno, ne valuta infatti la grammatica, la resa scenica, la sicurezza, dunque si volta  anche verso i monitor per la prova tivù, la fondamentale telegenia: mentalmente scarta e seleziona  ministri, sindaci, presidenti di regione, deputati e senatori, dirigenti Rai, consiglieri d'amministrazione dell'Eni e della Finmeccanica… E per tutti loro è consapevolmente un esame, lo  sanno, e si emozionano anche, per questo casting da quattro infiniti minuti: Emanuele Fiano si gioca un ruolo in squadra, dunque cerca gli applausi con il tono della voce, qualche altro si confonde e perde il filo, mentre Beppe Sala, candidato sindaco di Milano, si avvicina al palco e quasi inciampa, allora viene fermato dalla sicurezza: "Lei non può passare", gli dicono. E lui: "Veramente io 'sarei' Beppe Sala". 

 

Alla fine solo i giornalisti politici si annoiano davvero, perché le signore invece si rallegrano e possono contendersi Matteo Richetti per una foto, i candidati affrontano il loro esame sul palco in altalena tra esaltazione e scoramento, mentre i consiglieri comunali, provinciali e i semplici militanti sono felici perché possono parlare con deputati, ministri e quasi ministri. E quando gli ricapita? E' il grande cinema del renzismo di governo. Forse è persino politica. Chissà. Tra un selfie e una canzone di Jovanotti. Rappresentanza e rappresentazione. "Senza di voi, oggi non sarei dove sono", dice Renzi. "Tutto comincia da qua".

Di più su questi argomenti:
  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.