Licio Gelli, uno destinato a vivere della credulità degli altri
Con gusto noi italiani trovammo in Licio Gelli (morto ieri a 96 anni) un passatempo di quelli saporiti, un gancio a cui appendere sempre nuove trame, nuovi sospetti, nuove anticamere della verità, che però non arrivava mai e non è mai arrivata. Di quello che gli si attribuisce, compreso quanto è stato oggetto di condanna dopo una girandola giudiziaria infinita e onniversa, credo che solo un centesimo sia da addebitarsi alla sua vera storia.
Quando uscì la lista della P2, nel 1981, ero a Torino, tutti i brasseur d’affaires e i politici affettavano d’essere terrorizzati dall’apertura della caccia al massone, e un amico intelligente e cinico mi disse subito: “Cazzo, che guaio non esserci”. Aveva ragione, ovviamente. Pidduisti e amici dei pidduisti hanno fatto splendide e in certi casi meritatissime carriere, a maggior gloria dell’industria, della finanza, della televisione e di Sora Repubblica, ed esserci stati, in quella lista fatale, ha voluto dire solo che la benevolenza della satira, della considerazione reverente e della fortuna era dalla parte dei nomi “posti in lista” del solito catalogo leporelliano. In Italia 962, ma in Ispagna son già milletrè.
Licio Gelli, morto martedì a 96 anni, non avrebbe mai potuto sperare in un teatro tanto vasto e cinico e risonante per le sue imprese. Aveva una personalità e talenti da doppiogiochista, da affarista, da procacciatore di potere e relazioni, dunque era un carattere d’attore, uno che era destinato a vivere della credulità degli altri, e a spizzare le carte della realtà quel tanto, ci fosse o no il punto, da suggerire una confortevole vincita. Un fascistone. Un riciclato nel solito doppiofondo della storia italiana. Un piccolo manager. Un abile massone, col grembiulino e il triangolo, erede e cooperatore di altre abilità e capace di alleanze personali e di gruppo di un certo spessore. Ma di quello che gli si attribuisce, compreso quanto è stato oggetto di condanna dopo una girandola giudiziaria infinita e onniversa, credo che solo un centesimo sia da addebitarsi alla sua vera storia.
Non esistendo “segreti d’Italia”, intesi come spiegazione del doppio stato e del crimine politico, nessuno, nemmeno lui, ne era titolare. Camarille inquiete bensì, ruffianate, rimandi di responsabilità mediati da ideologie moraliste al servizio dei delinquenti, questo sì, questo in Italia è successo e succede da secoli. Tutti avemmo l’impressione, quando un massone fiorentino di grido come il compianto Spadolini andò al governo sull’onda dello scandalo della rivale e sciolse l’adunata facendone un caso di sedizione, che fosse una cosa tra di loro, con tutto il rispetto per gli incensurati e i condannati. Impressione confermata quando, dopo aver messo Gelli dappertutto, in tutte le stragi, in tutte le congiure, nella pazzia di Cossiga (sassarese, e perciò potenzialmente anche lui massone), nelle trame indiziarie del caso Moro, nelle Brigate rosse, nei servizi dell’est europeo al limitare della guerra fredda, nei tentativi di colpo di stato, alla Rai naturalmente, nelle vicende fallimentari delle proprietà dei giornali e delle case editrici, insomma, dopo aver ricondotta a lui e a Umberto Ortolani compare la catena del delitto dalla a alla zeta, dopo tutto questo una sfilza di assoluzioni liquidò come chiacchiericcio l’intero esercito colpevolizzato dei piduisti.
[**Video_box_2**]Ma Gelli era intanto diventato un eroe di romanzo. Un grande giornalista e novelliere toscano, Gian Franco Piazzesi, ch’era stato licenziato da direttore della Nazione di Firenze, città massonissima, ed aveva trovato rifugio nel Corriere della sera, quotidiano a suo modo massonissimo ma più aperto e meno conventicolare del confratello, aveva fatto delle storie gelliane una specie di Decamerone capace di alimentare racconti in campagna, mentre la peste si divorava la Repubblica, per anni e anni. E con gusto. Con gusto noi italiani trovammo in Licio Gelli un passatempo di quelli saporiti, un gancio a cui appendere sempre nuove trame, nuovi sospetti, nuove anticamere della verità, che però non arrivava mai e non è mai arrivata. Ora c’è solo da dire parce sepulto. E da aspettare, in caso di ritorno alla Repubblica dei partiti, il prossimo terribile spauracchio.