Mal di destra
La destra italiana non ama se stessa, non si fida della propria storia, preferisce illudersi che la fortuna sia una dea straniera alla quale incatenarsi per poi caracollare ciechi avanti e indietro. Senza un disegno né un rimpianto. Il caso lepenista è soltanto l’ultimo in ordine di tempo, peraltro ricorrente sin da quando il giovane missino Gianfranco Fini, nel 1991, al tempo della prima guerra del Golfo, era volato a Baghdad per far visita a Saddam Hussein assieme al patriarca. Assieme a Jean-Marie Le Pen, l’ex parà nostalgico tutto ordine e xenofobia, oggi reprobo in casa, esule in famiglia, rinnegato da figlia e nipote, Marine e Marion, le Erinni de la République che hanno appena condotto il Front national alla più spettacolare non-vittoria elettorale francese. E con loro se ne viene giù l’illusione di chi, confuso e smemorato, qui in Italia si accreditava già come il rivolo vincente di un’alluvione transalpina. Matteo Salvini, da ultimo, il gruppettaro padano che per rifarsi un’identità patriottica ha finito per introiettare nella sua Lega delle destre il virus post fascista della subalternità, del minoritarismo, dell’esterofilia, in omaggio alla mal celata credenza che un battito d’ali populista a Calais possa generare una tempesta tricolore dalla Val Padana a Lampedusa. E’ un malanno antico, il rivendicare le altrui vittorie che si traducono in sconfitte per procura, e nasce nel ventre oscuro dell’Italia novecentesca. Ma almeno il Pci sovietizzante era il primo partito comunista europeo, la sua salute era immune dai contraccolpi dei piani quinquennali di Mosca. La Dc era domiciliata a Washington, godeva di un simmetrico privilegio. La destra no: fuori dall’arco costituzionale, s’è ammalata di messianismo d’importazione e sdoppiamento della personalità.
La sindrome colpisce adesso Salvini – e giustamente il Cav. si ringalluzzisce: senza di me, dove vai… – ma affonda le radici nella paleodestra da cui discendono gli ex finiani, i Fratelli d’Italia (invero Giorgia Meloni qualche anticorpo tricolore l’ha opposto), le frattaglie varie e disperse di un mondo sopravvissuto alla sconfitta di Salò con addosso il marchio del filo germanesimo e il danno biologico del badoglismo che sembrò inverare la disillusione mussoliniana sulla possibilità di governare gli italiani, traditori naturali della patria e neghittosi per atavismo. Con questi presupposti, la salvezza doveva per forza giungere da un altrove non meglio precisato e di volta in volta riconosciuto alla bisogna nelle più improbabili latitudini. Negli anni Settanta, coi neofascisti ormai distanti anni luce dalle prospettive d’inclusione fatte balenare dai diccì più spericolati (il culmine fu il tentativo di Fernando Tambroni nel 1960), dentro le sezioni missine si poteva ascoltare uno stornello truce e triste ma assai dimostrativo: “Uno-due-tre… viva Pinochet… quattro-cinque-sei… a morte li giudei…” e via così fino ai punti otto-nove-dieci: “Viva i colonnelli greci”. I riferimenti politici, diciamo così, di una gioventù reproba, e che si stava incamminando lungo l’atrio funesto degli anni di piombo, erano dunque le dittature militari che da Atene (1967-1974) a Santiago del Cile (1973-1990), passando per la Spagna franchista (1939-1975) e il Portogallo di António de Oliveira Salazar (1932-1968) alimentavano un immaginario accartocciato e paragolpista. Non mi spingo a sostenere che il Msi fosse nell’essenza estraneo ai cardini della democrazia elettorale – lo slogan delle origini “non rinnegare e non restaurare” restò sempre la stella fissa – ma insomma nelle porte girevoli di un partito così contiguo al radicalismo anti sistema (Ordine nuovo e Avanguardia nazionale su tutti) era un po’ questa la moneta corrente. Aggiungici un sopraggiunto ripiegamento culturale, la rapida dismissione dell’eticismo idealista di Giovanni Gentile (complice il nordicismo di Julius Evola), la copertura ideologica del “Fascismo come fenomeno europeo” (è il titolo di un libro felice dello sfortunatissimo Adriano Romualdi, figlio di Pino), l’innamoramento improvviso per la mitologia e i simbolismi celto-germanici provenienti dalla Nouvelle Droite francese… spolvera il tutto con una pioggia di letteratura fantastica (Tolkien e dintorni) e una passata di terzomondismo speculare a quello della sinistra estrema (dal Fronte Polisario ad al Fatah passando per Bobby Sands e gli Euskadi) ed ecco il risultato. Se c’è una infelix culpa, nella genealogia del complesso d’inferiorità patito dalla destra italiana, e certo che c’è, è appunto questa. Sedicenti patrioti, avevano D’Annunzio ma si sono bevuti (ci siamo, c’ero pure io) il rexismo belga di Léon Degrelle assieme ad altri simili filtri clerico-fascisti o wagneriani. E, quel che è peggio, quando il prodotto era ormai più che scaduto. L’ultima sbronza, prima che da Arcore scendesse un imprenditore socialista a scombinare schemi e piani, fu nei primi anni Novanta del secolo scorso, quando l’implosione della Jugoslavia infiammò gli antichi furori balcanici, risvegliando l’etnocentrismo di serbi e croati; intanto la riunificazione tedesca accendeva focolai di rivolta sociale nel lumpen-proletariato con la testa rasata. Anche allora, mentre Giuliano Amato si dedicava alla pesca a strascico nei conti correnti bancari italiani, qualcuno a destra vagheggiava il risveglio dei popoli europei per un dopo Yalta rossobruno. Fantasticherie catacombali. Però aiutano a capire e spiegano meglio di un sondaggio le ragioni di un’inclinazione che nessuno ha ancora pienamente raddrizzato.
[**Video_box_2**]L’abbiamo presa larga, forse, ma adesso è più chiara la ragione per cui l’almirantiano Fini, alla metà degli anni Duemila, individuò nello strano gollista Nicolas Sarkozy e nel suo protorenzismo di successo – “Non sono un conservatore. Credo nel movimento. Voglio che l’avvenire torni a essere una promessa e non una minaccia” – un punto di non ritorno per liberarsi dell’ipoteca berlusconiana. Proprio quel Berlusconi che del successore di Chirac ha sempre detto, con sbrigativa degnazione e zero complessi d’inferiorità: “E’ stato mio avvocato molti anni fa”. Era il dicembre 2006, la destra post fascista dava i primi segni di una incipiente decomposizione, Fini patrocinava l’edizione italiana del libro-manifesto elettorale sarkozista “Témoignage”, e Libération titolò: “Un post-fasciste préface Sarkozy en version italienne”. Oggi a Parigi il sarkozismo è ancora vivo, o così crede, in Italia sappiamo come è andata a finire.
E torniamo così nelle mura diroccate dei populismi domestici. Non è reato né peccato credere di potersela giocare al di fuori dell’eurobipolarismo tra popolari e socialdemocratici. Il Movimento 5 stelle è lì a dimostrarlo e non se la passa malaccio, però non ha mangiato la foglia tossica di Nigel Farage e della sua Ukip, Beppe Grillo si è limitato a un assaggio diffidente. E poi quella pentastellata è una proiezione escatologica e non politica: promettere di salvare il mondo porta voti, ma non pure la capacità di usarli governando. Se vogliamo anche Renzi è abbastanza avulso dalla dialettica tradizionale delle famiglie europee, non ha nulla o quasi di socialdem, ma la sua forza è nel format generazionale, nella net-policy stile “House of Cards”, più che in un albero genealogico. Cinismo ludico-mediatico, empirismo fai-da-te: quella di Renzi è “azione”, provinciale e paracula quanto si può volere, eterodiretta e biodegradabile quanto si può sospettare, ma è pur sempre azione e sembra funzionare. Non per caso si ritrova al fianco di compagni di strada, dal tardo blairismo del tory Cameron alla lib-gauche di Valls e Macron, più che al seguito di modelli politici (al limite Obama, ma è sin troppo lontano). E infatti Renzi si lascia alle spalle i cadaveri di una sinistra residuale che dovrebbe valere come monito per la destra in cerca di futuro. Tsipras, tsiprioti e affini come Podemos sono l’effigie in dissolvenza che qui da noi poteva sedurre e deludere giusto un mondo incanutito in fretta, popolato da altermondisti male intellettualizzati, mozzorecchi in disarmo, ex figli ricchi dei dirigenti di Democrazia proletaria (per chi se la ricorda) scivolati nella moltitudine di Toni Negri. La destra sta commettendo lo stesso svarione, à rebours, ma in scala discendente e con Michel Onfray al posto di Thomas Piketty (o forse cumulandoli per sbagliare meglio), ignara com’è che quella del lepenismo 2.0 è soltanto reazione, è Vandea matriarcale della Francia profonda e spaurita, se non sommersa e basta. Che senso ha avviticchiarsi a un’altra pianta stagionale, straniera e infeconda?